E’ ormai sempre più chiaro che uscire dalla crisi è impresa ardua e che un eventuale soluzione sarà un compromesso forse peggiore dei tanto disprezzati governi balneari della prima repubblica.
L’elezione del Friuli con l’impetuosa avanzata della lega, la resurrezione di Forza Italia e la dura sconfitta dei 5 stelle, ha radicalmente modificato lo scenario e imposto un cambio di marcia ai 4 dell’Ave Maria intorno a cui ruota la politica italiana: Di Maio, Salvini, Renzi e Berlusconi.
Di Maio ha immediatamente cambiato strategia. Dismesso l’abitino inamidato da premier in pectore, preoccupato dei destini dell’Italia, ha rispolverato il vecchio e ben rodato linguaggio del fustigatore dei costumi altrui. Il suo obiettivo è ora Salvini, il suo diretto competitor, a cui lancia il guanto di sfida delle elezioni subito e lo accusa di essere nelle mani di Berlusconi per motivi che con la politica hanno ben poco a vedere.
Salvini non cambia strategia, incoraggiato dalla clamorosa vittoria del Friuli che ha unito in un solo blocco quasi tutto il Nord Italia riconfermandolo leader di fatto di tutto il centro destra. La sua apertura ai 5 stelle rimane, anche se le pesanti insinuazioni di Di Maio lo hanno costretto, suo malgrado, a minacciare querele, senza ancora chiudere le porte a una soluzione di compromesso.
Berlusconi vede invece una seconda giovinezza. Il buon risultato del Friuli e il giuramento di Salvini di eterna fedeltà alla coalizione, lo hanno rimesso in sella e rassicurato che le sue aziende non subiranno ostracismo dal governo prossimo venturo, qualunque esso sia.
Renzi, infine, si è ripreso il posto che aveva lasciato solo perché non è uomo da intermezzi e perdita di tempo; ed infatti come il gioco si è fatto duro, si è subito rigettato nella mischia rimandando in panchina il resiliente Martina e aprendo un conflitto con lo stesso arbitro della partita, il presidente Mattarella.
Ora si è di nuovo in attesa che dal Quirinale esca, come il coniglio dal cappello, il nuovo coach in grado di formare una squadra di governo.
In tutto questo il dato che emerge con maggiore evidenza è la mancanza di una discussione democratica all’interno dei partiti.
I 4 leader infatti sono gli unici player della partita e possono cambiare posizione senza darne conto a nessuno. Certo si dirà che nel caso del PD la risposta sdegnosa di Martina, Franceschini e Orlando all’invasione di campo di Renzi c’è stata, specie dopo l’incredibile messa in rete della lista dei reprobi pronti al compromesso con Di Maio. Resta tuttavia il fatto che Renzi continua a comportarsi come il vero segretario del Partito non risparmiando umiliazioni al povero Martina, che pure del renzismo è stato un adepto fedele. Per gli altri tre, nessuno escluso, il problema della democrazia non si pone nemmeno e il capo del partito è l’unico e indiscusso detentore di una linea politica che si adatta plasticamente alle necessità tattiche del momento. Nulla contano gli iscritti che nel migliore dei casi vengono chiamati a ratificare decisioni già prese.
Per anni il sindacato è stato accusato di tutto: di difendere solo i garantiti, di essere un ostacolo alla modernizzazione del paese, di essere un carrozzone burocratico. E forse anche questo in parte c’è stato, ma di sicuro nel sindacato non c’è mai stato quel difetto di democrazia interna che è la cifra dei moderni partiti.
I 4 signori dell’Ave Maria di cui sopra forse dovrebbero perdere un po’ del loro tempo per vedere come si discute nel sindacato, perché qualcosa imparerebbero di sicuro. Il sindacato era dato per morto, ma le recenti elezioni delle RSU hanno dimostrato l’esatto contrario. La presenza continua nei luoghi di lavoro, il confronto quotidiano con gli iscritti sono gli elementi che rendono il sindacato una istituzione insostituibile e che hanno convinto la quasi totalità dei lavoratori a partecipare al voto per eleggere i propri delegati.
Tutto il contrario di quanto avviene nelle elezioni politiche o amministrative di ogni grado dove la partecipazione dei cittadini è scesa ormai a livelli preoccupanti.
Di questa democrazia interna fatta talvolta di discussioni interminabili e noiose, ma condotte alla luce del sole e nei luoghi a questa dedicati, nulla sanno i partiti e i movimenti che si candidano a governare l’Italia. Forse da questo dovrebbero ripartire per ridare un significato alla politica, oggi ridotta a slogan, tatticismo opportunista o quel che peggio a pura propaganda elettorale.