Il 1818. Il 1968. Il 1978. Tanti otto. Prosciutto cotto, era il liberatorio sberleffo di Rino Gaetano. Il numero dal doppio tondo sta in effetti diventando un’ossessione. La nascita di Marx, il rapimento di Moro, la rivolta giovanile. Duecento anni orsono, a Treviri, vedeva la luce il profeta del comunismo. Cinquanta primavere fa fioriva il maggio francese. Quaranta ne sono passate dal sequestro e l’uccisione dello statista democristiano. Libri, film, documentari, fiction televisive. Un diluvio di rievocazioni, di ricordi, di analisi.
Il fatto è che tutte queste rivisitazioni fanno sì riflettere su quel che non può essere dimenticato ma finora non hanno aggiunto nulla di davvero nuovo a quanto già si sapeva. I buchi neri del caso Moro restano tali, così come il rovello se fosse giusto o no trattare con i brigatisti. Un’unica certezza: se non avessero tolto di scena un protagonista così onesto e illuminato, la vicenda politica italiana non sarebbe finita nell’attuale degrado.
Sul ’68 restano i dubbi d’interpretazione: rivolta generazionale o empito rivoluzionario? Illustri protagonisti di allora, quasi tutti ben inseriti in ruoli di grande prestigio, continuano a parlarne con nostalgico romanticismo, esaltando l’aspetto libertario; i critici puntano il dito contro la violenza, ritenuta prodromo del terrorismo, e a denunciare il crollo dei principi di autorità e di gerarchia di cui, a loro dire, paghiamo ancora, il prezzo.
Di Marx c’è la tendenza a rivalutare gli scritti giovanili e i saggi filosofici, privilegiando una lettura antropologica, e a rimarcare che le crisi del capitalismo rendano ancora attuali le sue analisi economiche. I suoi apologeti si guardano bene dal trarre conclusioni politiche sulle quali invece insistono i detrattori ritenendolo comunque l’ispiratore della tragedia del socialismo reale.
Ma, nell’ancora enigmatico 2018, non sono solo queste le date da ricordare. Il 9 maggio del ’78, lo stesso giorno in cui fu trovato in via Caetani, a Roma, il cadavere di Moro, la mafia, come per un perverso e parallelo disegno del destino, uccise a Cinisi, provincia di Palermo, Peppino Impastato, imperituro simbolo della solitaria e coraggiosa lotta di un giovane che osò accusare e ridicolizzare i capi di Cosa Nostra.
Non basta. Il 18 febbraio del 1988, alla Magliana, Pietro De Negri, detto er Canaro, massacrò il suo persecutore Giancarlo Ricci, er Pugile. Un truculento episodio di cronaca nera che destò orrore e stupore ma che fece pendere la bilancia della comprensione dalla parte della vittima e della sua ribellione contro il bullo che gli rendeva impossibile la vita. Anche in questo caso escono libri e film.
Tante storie che vengono narrate di nuovo, con aggiunta di particolari, a volte romanzate, arricchite di nuovi misteri per cercare di attrarre la pubblica attenzione. Forse andrebbe trovato un filo che tutte le lega. Che hanno in comune, oltre al numero 8, Marx, Moro, Peppino Impastato, il maggio francese e il Canaro? Assieme levano un unico grido contro una società ingiusta, alienata, bugiarda e bastarda. Che degli anniversari se ne frega e procede compatta verso il proprio annichilimento. Prosciutto cotto.
Post Scriptum: nella precedente rubrica, “L’ora dei vigliacchi”, si parlava del pavido egoismo che rende muti spettatori di fronte ad ogni genere di violenza. L’aggressione ad una ragazza disabile che aveva osato protestare e le botte ai proprietari di un bar della Romanina, periferia di Roma, confermano la dolorosa realtà. I presenti hanno tutti girato la testa dall’altra parte, facendo finta di niente. In verità ci vuole del coraggio per essere così vili.