Il Contratto di Governo, ormai ufficiale, liquida il lavoro in una pagina e mezza, e dedica appena otto righe per il Sud. Niente politiche attive per l’occupazione, tanto c’e’ il reddito di cittadinanza. Giu’ il Pil con lo stop all’Ilva e all’immigrazione.
La prima cosa che colpisce, leggendo il Contratto di governo Lega –Cinque stelle nella sua versione ufficiale e definitiva, è l’abolizione del CNEL: sì, proprio lui, il vituperato consiglio nazionale dell’economia e il lavoro, la cui cancellazione era stata il simbolo della riforma costituzionale del governo Renzi, contestatissima dai Cinquestelle. E proprio l’inserimento di uno dei progetti del precedente e detestato governo in quello che sarà la Bibbia del prossimo, è un po’ la chiave per capire il filo conduttore di questo Contratto: un misto di opportunismo e pressapochismo, condito di contraddizioni, che rischia di trascinare il paese lungo una china da cui sarà difficile risalire.
Si dirà: ma il CNEL è un dettaglio. Vero. E’ proprio dai dettagli che occorre partire per avere la visione d’insieme. Per esempio, vale la pena di notare subito, ancor prima di approfondirne i contenuti, che al capitolo Lavoro, indicato da anni come il più grave e urgente problema del paese, il Contratto Salvini-DiMaio dedica appena una paginetta e mezzo. Meno della metà dello spazio dedicato al tema Sport (due pagine e mezzo) e ancora meno di quante parole sono state spese per il capitolo Turismo (tre pagine fitte), ma comunque molto di più rispetto al capitolo Mezzogiorno, altro drammatico problema nazionale, che il Contratto liquida in sole otto righe: otto righe. Tanto per dare un’idea delle priorità, della scala gerarchica.
Il lavoro, allora. Il capitolo inizia ponendosi il problema di garantire un’ equa retribuzione a tutti, attraverso “l’introduzione di una legge sul salario minimo orario’’, valido per tutte le categorie di lavoratori e settori produttivi per i quali la retribuzione minima non sia già fissata dalla contrattazione collettiva’’. Anche questa, come si ricorderà, era una legge avviata dal Partito democratico, ma duramente avversata dai sindacati: per il semplice motivo che nel momento in cui è fissato per legge un salario minimo orario, quello diverrà inevitabilmente il riferimento anche per gli stessi contratti nazionali. Che a quel punto potranno andare serenamente in pensione.
Per contro, inutile cercare nel Contratto di Governo l’ abolizione del Jobs act, o la promessa (in campagna elettorale) reintroduzione dell’articolo 18: non se ne fa parola. Il Jobs act viene citato en passant, in un brevissimo inciso verso la fine del testo, solo per dire che ha contribuito alla precarietà, ma nessun accenno di cancellarlo o modificarlo. Ci si limita ad affermare, invece, una generica volontà di “costruire rapporti di lavoro più stabili per consentire alle famiglie una programmazione più serena del loro futuro”. Come, attraverso quali strumenti, resta mistero fitto.
Ma se il Jobs act non sparisce, in compenso nel Contratto c’e’ un grande ritorno, quello dei voucher: abrogati dal governo Gentiloni per evitare il referendum indetto dalla Cgil, che contro i voucher aveva scatenato una guerra totale, eccoli ritornare in auge nella versione Lega-Cinque stelle. “La cancellazione dei voucher –si legge nel testo del Contratto- ha creato non pochi disagi ai tanti settori per i quali questo mezzo di pagamento rappresentava uno strumento indispensabile”, favorendo l’aumento del lavoro nero e sommerso. Pertanto, “occorre porre in essere una riforma volta a introdurre un apposito strumento, chiaro e semplice, che non si presti ad abusi, per la gestione del lavoro accessorio”. E dunque, ben ritrovati, voucher.
Altre misure per il lavoro? Per favorire ‘’una pronta ripresa dell’occupazione’’ basterà, nella visione Lega-Cinquestelle, “liberare le imprese da oneri inutili e gravosi”. In primo luogo attraverso la ‘’riduzione strutturale del cuneo fiscale’’, (altra misura già utilizzata a piene mani dal centro sinistra, e molto criticata, ai tempi del governo Renzi, in quanto considerata un costoso e inutile ‘’regalo alle imprese”). In secondo luogo, semplificando e riducendo gli ‘’adempimenti burocratici connessi alla gestione amministrativa dei rapporti di lavoro che incidono pesantemente sul costo del lavoro in termini di tempo, efficienza, e risorse dedicate’’. Per quanto riguarda le politiche attive del lavoro, invece, il contratto rimanda invece direttamente al reddito di cittadinanza, vale a dire a quelle che definisce ‘’adeguate misure di sostegno al reddito e protezione sociale’’.
Nell’ultima versione ufficiale del contratto il reddito di cittadinanza (che avrà una gemella pensione di cittadinanza) sarà di 780 euro mensili netti a persona, e sarà disponibile per “i cittadini italiani che versano in condizioni di bisogno”. Il RdC presuppone però che i cittadini che ne usufruiscono dimostrino un ‘’impegno attivo” nel trovare lavoro. Però non si spiega come: il cittadino dovrà presentarsi ogni tot in un ufficio apposito? Sarà visitato da ispettori che ne valuteranno “l’impegno attivo’’? La sola cosa che si sa è che non potrà rifiutare oltre tre offerte di lavoro nell’arco di due anni, pena la decadenza dal diritto al Rdc. Peccato che non sia precisato nemmeno chi, come, attraverso quali strumenti, gli avanzerà le tre offerte. Il testo del Contratto afferma, cripticamente: ‘’la misura si basa su due direttrici guida, che sono da un lato la tipologia di professionalità del lavoratore e dall’altro la sinergia con la strategia di sviluppo economico mirato all’obiettivo della piena occupazione, innescata dalle politiche industriali volte a riconvertire i settori produttivi, così da sviluppare la necessaria innovazione per raggiungere uno sviluppo di qualità”. Che significa? Boh. In ogni caso, preliminare a tutto questo sarà l’investimento di 2 miliardi per riorganizzare i centri per l’impiego: ai quali, una volta riformati, riorganizzati, eccetera, spetterà il compito di ‘’catalizzatore e riconversione lavorativa dei lavoratori che si trovano momentaneamente in stato di disoccupazione’’.
Dicevamo, all’inizio, del risicatissimo spazio dedicato al Mezzogiorno e al suo sviluppo. Nelle otto righe che riserva all’argomento, il Contratto spiega in sostanza che non esiste un sud, ma un paese unico, dunque misure ad hoc, come in passato, non servono: “contrariamente al passato, si e’ deciso di non individuare specifiche misure col marchio Mezzogiorno, nella convinzione che tutte le scelte previste dal presente Contratto sono orientate dalla convinzione verso uno sviluppo economico omogeneo per il paese’’. E tuttavia, qualcosa di specifico per il sud c’e’, ed e’ la chiusura dell’Ilva di Taranto, inserita nel capitolo Ambiente e giustificata con la necessità di ‘’concretizzare i criteri di salvaguardia ambientale, proteggendo i livelli occupazionali e promuovendo lo sviluppo industriale del sud attraverso un programma di riconversione economica basato sulla progressiva chiusura delle fonti inquinanti, sullo sviluppo della green economy, delle energie rinnovabili e dell’economia circolare’’. I ventimila addetti all’Ilva, afferma il testo, saranno comunque ‘’protetti’’: col reddito di cittadinanza, si presume.
Infine, il capitolo immigrati. Apparentemente non attiene ai temi economici e del lavoro che abbiamo messo al centro di questa analisi, ma in realtà e’ ad essi strettamente collegato. Il Contratto Salvini-DiMaio prevede infatti, sostanzialmente, il blocco dell’immigrazione e il rimpatrio dei circa 500 mila irregolari presenti sul territorio nazionale italiano. I dettagli di come eseguirli restano avvolti nel mistero, mentre e’ precisa la richiesta di aprire appositi ‘’campi” in ogni regione italiana, nei quali saranno di fatto detenuti, per un tempo massimo di 18 mesi, gli immigrati in attesa di rimpatrio.
Tralasciando di entrare nel merito dei diritti umani e delle regole internazionali- che pure ce ne sarebbe da dire- vale la pena però di sottolineare quanto grave sarebbe il danno alla nostra economia, se ci privassimo dell’apporto degli stranieri. Lo afferma con chiarezza un recente rapporto della Banca d’Italia, rapportando la presenza degli immigrati alla crescita: grazie a loro, nel decennio 2001 -2011 il nostro Pil e’ cresciuto del 2,3 %, mentre se non ci fossero stati sarebbe calato del 4%.
Ancora più determinante la presenza straniera nell’ultimo difficile quinquennio: la flessione del Pil procapite che pure abbiamo registrato, e che e’ stata pari al 4,8%, in assenza della popolazione immigrata sarebbe stata quasi doppia, a meno 7,4%. Infine, Bankitalia prova a ipotizzare cosa accadrebbe se si azzerassero i flussi migratori futuri. La risposta è agghiacciante: il livello del Pil aggregato crollerebbe del 50%, e il reddito pro capite risulterebbe inferiore di ben un terzo rispetto a oggi. Senza immigrati, saremmo quindi un paese in ginocchio e impoverito fino alla fame. E nessun reddito di cittadinanza basterebbe a tenerci in piedi.
Nunzia Penelope