In tutta evidenza, dall’ultima Relazione annuale del Governatore della Banca d’Italia a quella di oggi è passato un anno. Anzi, un anno meno due giorni, visto che la relazione relativa al 123° esercizio fu presentata il 31 maggio del 2017. Eppure, è come se fosse passato un tempo molto più lungo.
Nei dodici mesi che ci separano da quella data, infatti, sono accadute molte cose nelle relazioni tra sistema creditizio e mondo politico, alcune delle quali anche molto spiacevoli per l’uomo che, dal novembre del 2011, regge le sorti di quello che fu il nostro Istituto di emissione. Sia tra le forze politiche, che nel chiacchiericcio mediatico, c’è stato chi ha tentato di addossare alla Banca d’Italia almeno parte della responsabilità delle crisi verificatesi nel sistema bancario italiano negli anni scorsi. In particolare, l’accusa che è stata mossa alla Banca d’Italia è quella di non aver esercitato in modo efficace le sue funzioni di vigilanza. Quando è facile capire che le crisi di alcune banche italiane sono state conseguenza, in primo luogo, di quelle che Visco considera come due distinte e successive crisi economiche: quella della finanza globale, iniziata nel 2007, e quella dei “debiti sovrani”, iniziata nell’area dell’euro a partire dal 2010.
Agli osservatori più distaccati, è parso incongruo che le responsabilità di chi, essendo alla testa di singoli istituti di credito, nell’ambito di una situazione oggettivamente difficile, si era reso colpevole di comportamenti incauti o errati, quando non scorretti, venissero addossate a chi, esercitando il dovere della vigilanza, aveva proceduto prima a individuare e poi a denunciare tali responsabilità. Era un po’ come prendersela con i pompieri per gli incendi appiccati dai piromani. Ma questo, nei mesi scorsi, è accaduto.
Fino al punto che non solo le forze di opposizione neo-populista, dal MoVimento 5 Stelle alla Lega in versione salviniana, ma lo stesso Partito Democratico – per impulso del suo leader, Matteo Renzi – hanno voluto che, mentre la XVII legislatura affrontava i suoi ultimi mesi di vita, venisse costituita in tutta fretta una Commissione d’inchiesta ad hoc. Ovvero una Commissione formalmente incaricata di indagare su vicende ampiamente note. E ciò non tanto per scoprire chissà quali verità, ma allo scopo di tenere al riparo l’immagine stessa delle forze politiche da vicende quali quelle del Monte dei Paschi di Siena o delle Banche Venete, scaricandole su Consob e Banca d’Italia.
Ebbene, di tutto questo, nelle Considerazioni finali svolte oggi da Ignazio Visco, non c’è traccia. L’eventuale amarezza che tali vicende possano aver provocato in un fedele e capace servitore dello Stato non è neppure vagamente percepibile nelle 20 pagine lette oggi dal Governatore. Il che non significa, ovviamente, che l’argomento banche non sia stato toccato dall’analisi di Visco. Significa che è stato trattato con quel distacco che appartiene allo stile dell’uomo.
Nel 2016, anno in cui le crisi bancarie avevano avuto ampio spazio nelle Considerazioni finali, Visco aveva osservato che le banche italiane avevano “subito i colpi della crisi” e che, mentre “i crediti deteriorati” erano “elevati”, la redditività delle banche stesse risultava piuttosto “bassa”. Adesso, dopo due anni, Visco può constatare che “nel 2017 le banche italiane hanno rafforzato” il loro “patrimonio”. In particolare, “negli ultimi due anni si sono ridotti sia l’esposizione delle banche nei confronti del settore pubblico, sia l’ammontare dei crediti deteriorati”. Questi ultimi, rispetto alla fine del 2015, hanno “registrato un calo di quasi un terzo” (pag. 15).
Ora queste notizie moderatamente ma univocamente positive, relative al nostro sistema creditizio, non sono un qualcosa di isolato all’interno delle Considerazioni finali svolte oggi al secondo piano di palazzo Koch. Sono anzi un aspetto, certo non secondario, di un quadro che si è fatto ormai più mosso di quelli degli anni scorsi.
Ed ecco, dunque, quello che è forse il passaggio centrale dell’analisi dedicata da Visco alla situazione economica del nostro Paese: “La fase ciclica in cui si trova la nostra economia è diversa dalle precedenti. La crisi è stata molto più profonda e lunga di tutte quelle passate; la ripresa è più lenta che in altre occasioni: in cinque anni il prodotto ha recuperato solo la metà dei nove punti percentuali persi durante la doppia recessione.” Ne segue che “restano inutilizzati ampi margini di capacità produttiva e, in particolare, di forza lavoro”.
Ciò premesso, Visco si sente in grado di affermare con nettezza che “l’economia italiana è in recupero”. E poi aggiunge: “La crescita del prodotto si è irrobustita lo scorso anno, portandosi all’1,5 per cento, più di quanto atteso dai principali previsori”. Ora tale crescita è stata sì “sospinta in misura ancora rilevante dalle politiche macroeconomiche”, ma, sottolinea Visco, “è in aumento la sua capacità di autosostenersi”. In quest’ambito, “la domanda ha riflesso il buon andamento dei consumi e soprattutto degli investimenti”. Questi ultimi, che sono “ancora lontani dai livelli precedenti alla crisi”, risultano comunque “aumentati del 3,8 per cento”.
Il che, oltre a costituire un dato di per sé interessante, pone le premesse per una importante conseguenza: “Il rafforzamento dell’accumulazione di capitale, mancata nei primi anni della fase espansiva, pone le basi per il perseguimento della crescita”. Ciò anche perché “gli investimenti in beni strumentali hanno beneficiato delle agevolazioni fiscali, degli incentivi per l’innovazione tecnologica, delle favorevoli condizioni di finanziamento e del progressivo miglioramento della fiducia delle imprese nelle prospettive di domanda”.
Insomma, nell’analisi di Visco, al di là dei dati numerici, che sono ancora modesti, si profila una ripresa che, in un paese a vocazione manifatturiera come il nostro, assume caratteri strutturali: investimenti, beni strumentali, accumulazione di capitale.
In questo contesto, le esportazioni “si sono confermate un fattore trainante della crescita”. Nel 2017, infatti, “hanno registrato un’espansione del 5,4 per cento”, ovvero un’espansione “superiore a quella degli altri principali paesi dell’area dell’euro”.
E diamo quindi un’occhiata a ciò che accade intorno a noi. “Nel 2017 – dice Visco – la crescita dell’economia mondiale è stata vigorosa, prossima al 4 per cento. Ha riflesso una generalizzata accelerazione degli investimenti e del commercio internazionale.” Di più: “L’espansione dell’attività economica si è diffusa a tutti i maggiori paesi” e “dovrebbe rimanere robusta nel futuro prossimo”.
“Non mancano tuttavia i rischi”, avverte il Governatore. Fra questi vi sono quelli “associati all’elevato livello del debito mondiale, privato e pubblico, che nel terzo trimestre del 2017 ha raggiunto il 245 per cento del prodotto”, ovvero “35 punti in più che alla fine del 2007”.
Ma, e questo forse è un tratto peculiare delle Considerazioni di quest’anno, oltre ai rischi che si generano all’interno di quella che potremmo definire come la sfera economica, ci sono anche quelli di origine politica. “L’introduzione di misure di protezione commerciale – scrive Visco con quella che appare come un’aperta allusione alla politica del Presidente Usa, Donald J. Trump – e le possibili ritorsioni avrebbero gravi ripercussioni sull’attività produttiva mondiale.” Infatti, “la stessa situazione di incertezza prodotta da dichiarazioni e annunci che prefigurano involuzioni protezionistiche influisce negativamente sui piani di investimento delle imprese attive sui mercati internazionali”.
Insomma, pur con il suo stile compassato, Visco ha offerto, quest’anno, delle Considerazioni finali dotate di una particolare caratura politica. E se ciò è vero, come si è visto, per lo scenario internazionale, è forse ancor più vero per lo scenario italiano.
In un normale ragionamento impostato da un seguace del pensiero keynesiano, o anche dai discepoli di altre scuole di pensiero economico, si pensa all’economia come a una sfera quanto meno problematica, quando non caotica, e all’intervento della politica economica come a un’azione volta a portare, in tale sfera, equilibrio e ordine. Semmai, sono i liberisti quelli che intimano allo Stato di laisser faire perché, senza intrusioni politiche, le cose economiche dovrebbero essere in grado di funzionare benissimo da sole.
Qui siamo, però, in un terzo caso. Come si è visto, secondo Visco l’economia italiana “è stata sospinta in misura rilevante dalle politiche macroeconomiche” del recente passato. Politiche in cui, par di capire, lo stesso Visco ricomprende non solo ciò che è stato fatto, con diversi provvedimenti, dai Governi succedutisi in questi anni nel nostro Paese (superammortamenti, Industria 4.0, etc.), ma anche azioni condotte, a vasto raggio, da un soggetto pubblico, ma indipendente dai governi dei Paesi dell’Unione europea, quale è la Bce, con il suo quantitative easing.
Visco è quindi lontanissimo dall’avere un sospetto sistemico nei confronti della politica economica in quanto tale. Infatti, per lui “l’obiettivo finale della politica economica non può che essere quello di accrescere il reddito e il benessere di tutti”. E’ però evidente che il Governatore teme gli effetti potenzialmente negativi, quando non distruttivi, di scelte o anche solo di comportamenti sbagliati che potrebbero essere messi in atto da diversi soggetti politici.
Anche senza fare nomi e cognomi, Visco ha lanciato dunque, con queste sue Considerazioni, chiari segni di allarme relativi alle conseguenze che potrebbero derivare dalle politiche propugnate da alcune forze politiche uscite rafforzate dalle elezioni del 4 marzo scorso.
“Un’economia che si impoverisce è più diseguale e infelice”, afferma il Governatore, tirando una stoccata che fa pensare, da un lato, ai teorici della decrescita felice e, dall’altra, a chi ha ventilato l’ipotesi di chiudere grandi stabilimenti industriali, quali l’Ilva di Taranto.
Ma non basta: “Se il settore pubblico si limitasse a fare nuovi debiti senza operare per orientare in favore dello sviluppo la composizione del suo bilancio”, nonché “le norme e i modi di funzionamento dell’economia”, le conseguenze “sarebbero gravi” (p. 18).
Ora il fatto è che alla fine del 2017 “il debito pubblico italiano era pari a quasi il 132 per cento del Pil”. E questo è “un valore molto elevato rispetto al passato” e “supera di oltre 50 punti percentuali quello medio del resto dell’area dell’euro”. Costituisce quindi “un elemento di freno” nonché “la principale fonte di vulnerabilità” per la nostra economia.
Infatti, secondo Visco, un debito pubblico così rilevante “scoraggia gli investimenti, aumentandone i costi di finanziamento”. Accresce “il ricorso a forme di tassazione distorsiva, con effetti negativi sulla capacità di generare reddito, risparmiare e investire”. Comprime “i margini disponibili per politiche sociali”. Infine, “espone a crisi di fiducia, particolarmente pericolose quando, oltre a coprire il fabbisogno dell’anno, si devono finanziare ingenti importi di titoli in scadenza”. Importi che, nel caso del nostro Paese, ammontano complessivamente a “circa 400 miliardi di euro all’anno” (p.10).
Ora deve essere chiaro che per Visco questa faccenda del debito pubblico non è destinata, di per sé, a pesare come una condanna inestinguibile sul nostro futuro. Al contrario, “il rapporto tra debito pubblico e Pil potrebbe tornare sotto il 100 per cento nel giro di dieci anni, se venisse gradualmente conseguito un avanzo primario”, ossia una “differenza tra entrate e spese pubbliche al netto di quelle per interessi”, che si collocasse fra “il 3 e il 4 per cento del prodotto” (p. 10).
Il momento attuale, incalza Visco, “non è sfavorevole” anche perché, grazie – par di capire – al quantitative easing praticato dalla Bce sotto la guida di Mario Draghi, “le condizioni finanziarie in Europa sono distese”. Ne segue che “ridurre il debito pubblico e, contemporaneamente, sospingere l’attività economica è difficile ma non impossibile” (p. 19).
Morale della favola: “Non sono le regole europee il nostro vincolo, è la logica economica”. Logica cui “è strettamente connesso l’obbligo, che tutti abbiamo, di non compromettere il futuro delle prossime generazioni”. E ciò perché “accrescere il debito” oggi vuol dire “accollare loro quello che oggi non si vuole pagare”.
Concludendo: “Il destino dell’Italia è quello dell’Europa”. Infatti, “siamo parte di una grande area economica profondamente integrata, il cui sviluppo determina il nostro e allo stesso tempo ne dipende”. E’ quindi “importante che la voce dell’Italia sia autorevole nei contesti dove si deciderà il futuro dell’Unione europea”.
C’è un vecchio adagio che dice che le banche commerciano in fiducia. Se questo era vero per le banche tradizionali, è ancora più vero, oggi, per uno Stato come il nostro con i suoi complessi equilibri di finanza pubblica e i suoi complessi legami internazionali. Ecco dunque l’appello finale e, in ultima analisi, il messaggio più profondo di queste Considerazioni finali targate 2018: “Bisogna aver sempre presente il rischio gravissimo di disperdere in poco tempo e con poche mosse il bene insostituibile della fiducia. La fiducia nella forza del nostro Paese che, al di là di meschine e squilibrate valutazioni, è grande, sul piano economico e su quello civile; la fiducia nella solidità del nostro risparmio, fondata sulla capacità di superare gli squilibri finanziari, economici e sociali; la fiducia nel nostro futuro, da non disperdere in azioni che non incidono sul potenziale di crescita dell’economia, ma rischiano di ridurlo”.
@Fernando_Liuzzi