Il recente sondaggio dell’Eurobarometro (Ente della Unione Europea), https://www.europarltv.europa.eu/it/programme/eu-affairs/eurobarometer-2018-record-support-for-eu, ha registrato un alto gradimento dei Paesi dell’unione tranne che per gli italiani. Gli Italiani nella maggioranza del 56% non credono più in un’utilità dell’Unione Europea e le sue politiche, anzi, ben il 41% pensa che l’Unione sia stata un danno per l’Italia, un dato questo che supera tutta l’Europa e perfino il risentimento della Grecia, che notoriamente ha subito i suoi diktat finanziari.
Siamo oggi più Euro-scettici perfino dei sudditi della Corona inglese: i cittadini Britannici, per il 53%, sentono che l’Unione Europea ha portato loro dei benefici, ma nonostante ciò hanno chiesto, con referendum, di uscirne.
L’evidenza dei dati dimostra che sarebbe utile chiedersi se questo sentimento negativo verso la UE sia la conseguenza delle politiche dell’Unione – e ci pare veramente ingeneroso -oppure della loro applicazione da parte della classe dirigente italiana, notoriamente ritenute fra le più corrotte sia nello stato che nelle Istituzioni Europee stesse. Purtroppo, vero è che in alcune regioni i fondi dell’Unione per la formazione dei cittadini sono stati utilizzati, con raggiri contabili, per finanziare sostenitori economici di alcuni politici e il prezzo delle opere pubbliche è stato progettato per arrivare a gonfiarla spesa fino a molte volte quello che costano negli altri paesi in analoghe condizioni territoriali. Dunque, sarà uno degli obiettivi principali della prossima scadenza europea (rivisitazione politica monetaria e sociale) prevista alla fine di giugno almeno dimostrare che si è pronti ad una profonda riforma delle politiche prima di tutto nazionale che avrà una ricaduta internazionale.
L’attenzione principale deve essere verso i sub movimenti internazionali americani e russi, nonché l’alleanza franco/tedesca e l’evidente volontà di indicare come centro del bersaglio la Bce di Mario Draghi: quella a cui abbiamo assistito è stata-e lo è ancora- una guerra politico/economica nella quale l’Italia è usata come strumento per conquistare la vera posta in gioco, e cioè la sorte della moneta unica e dell’eurosistema. Il nuovo governo deve quindi mettere in campo politiche attive e un processo di unificazione di parte della regolamentazione sul lavoro a livello europeo, semplificando il nostro barocco ordinamento, e infrastrutture capaci di accompagnare lo sviluppo. Contemporaneamente occorre un piano straordinario di alfabetizzazione digitale degli adulti, preparandoci ad una profonda trasformazione di vecchi lavori e creazione di nuovi perché gli impatti più evidenti si avranno sulle professioni e i mestieri che stanno già mutando e generano una nuova domanda di professionalità da parte delle piccole e medie che sono l’ossatura del nostro paese.
Il successo dell’antipolitica ha aperto una faglia gigantesca controriformistica sia italiana che europea e contrasta irresponsabilmente la giusta sostenibilità finanziaria. Noi dobbiamo avere la consapevolezza che i piedi piantati del paese rimangono saldi sul sentiero stretto che corre tra rigore e crescita cercando di investire prima di tutto sulla conoscenza e non essere così furiosamente antieuropeisti. .L’intensità della crescita dipende dalla quantità di capitale umano dove il valore di una impresa dipende dalla qualità dei suoi lavoratori e dunque innovazione soprattutto della politica puntando all’obiettivo di investire sulla conoscenza, perché i nostri giovani finiscono di studiare troppo presto e a lavorare troppo tardi, e non hanno la certificazione delle competenze: solo il 29% della forza lavoro italiana possiede competenze digitali contro una media Ue del 37% .
Uno studio del McKinsey Global institute ci avverte che il 49% dei lavori svolti attualmente da persone fisiche, nel mondo, potranno essere automatizzati quando le tecnologie «correntemente sviluppate» si saranno diffuse su scala globale e molto presto. Lo studio molto dettagliato ha preso in considerazione non i singoli lavori (per esempio, “agricoltore”, “operaio manifatturiero”, “tecnico informatico”) ma i singoli compiti svolti (“addetto alle macchine agricole”, “addetto alla tornitura”, “sistemista”, prendendo in esame 54 nazioni del mondo, per un totale di circa il 78% dei lavoratori del pianeta. La verità è che sono relativamente poche le professioni che potranno in futuro essere totalmente automatizzate: meno del 5% del totale, ma nel 60% dei lavori, il 30% delle attività potranno essere svolte automaticamente da robot o sistemi di intelligenza artificiale; metà di questi sono distribuiti tra Cina, India, Stati Uniti e Giappone. Solo tra Cina ed India, i lavoratori coinvolti sono circa 600 milioni. Tra i Paesi analizzati da Mc Kinsey c’è anche l’Italia, dove sono coinvolti il 50% dei compiti, per un totale di 11,8 milioni di lavoratori. E non riguarda solamente i compiti che possono essere sostituiti da robot o macchinari, ma anche i cosiddetti “lavori d’ingegno”. Infatti «I recenti sviluppi nel campo della robotica, dell’intelligenza artificiale e dell’apprendimento automatico ci hanno portato all’apice di una nuova era di automazione. I robot e i computer possono non solo eseguire una serie di. attività lavorative di routine meglio e più a basso costo rispetto agli esseri umani, ma sono anche sempre più in grado di svolgere attività che includono capacità cognitive una volta considerate troppo difficili da automatizzare con successo, come prendere decisioni, rilevare emozioni o guidare un’auto.
“L’automazione -prosegue McKinsey- cambierà quindi le attività lavorative quotidiane di tutti, dai minatori ai bancari, dagli stilisti ai saldatori, agli amministratori delegati”. E, da un punto di vista prettamente produttivo, l’automatizzazione porterà anche dei vantaggi: secondo McKinsey, la crescita della produttività dovuta all’automazione potrà variare, dal 2015 al 2065, dallo 0,8% all’1,4% anno su anno. Non ha senso vedere questo cambiamento in una prospettiva catastrofista dal punto di vista dell’occupazione e del futuro dei lavoratori. Certo, sottolinea lo studio, molti impieghi si trasformeranno profondamente, ma questo cambio «non è senza precedenti. È di un ordine di grandezza simile a quanto è già successo nel XX secolo, quando nelle nazioni maggiormente sviluppate si è assistito ad un trasferimento del lavoro dal settore agricolo». «Questo trasferimento non ha portato a una disoccupazione di massa di lungo periodo, perché è stata accompagnata dalla nascita di nuovi tipi di lavoro». Gli esseri umani saranno ancora indispensabili: il guadagno in produttività che noi prevediamo potrà essere raggiunto solamente se gli uomini lavoreranno fianco a fianco con le macchine.
Ciò modificherà profondamente il mondo del lavoro: sarà necessario un alto grado di cooperazione fra lavoratori e tecnologie ed è per questa ragione che l’Italia dovrà investire molto di più-e da subito- in formazione e certificazione delle competenze perché l’economia ci dice che aumenta la domanda di personale addetto ai servizi alle persone il contatto umano, l’adattabilità, la creatività e non può essere sostituito da macchine e dall’altro cresce la richiesta di personale molto qualificato come tecnici, ingegneri, fisici, periti di altissimo livello che soprattutto le imprese del centro nord cercano e non trovano, compreso il personale che aggiusta le macchine e i robot che si guastano .
Alessandra Servidori