Giorgio Benvenuto è convinto che la crisi del sindacalismo confederale sia iniziata con il fallimento del fondo di solidarietà. La proposta, avanzata da Pierre Carniti e fatta propria dalla federazione unitaria, prevedeva di alimentare con lo 0,50 per cento degli incrementi salariali una sorta di cassa comune che servisse per misure a favore del Mezzogiorno e dell’occupazione. Luciano Lama la definì «il più nobile dei provvedimenti». Ma poi arrivò il no del Pci, passato dalla fase della responsabilità a quella dell’intransigente opposizione. Enrico Berlinguer ammonì che in questo modo si sarebbero esposti i sindacati «al grave rischio di essere anch’essi oggetto delle proteste e delle richieste dei lavoratori delle aziende in crisi, ossia a divenire controparte di se stessi». Non se ne fece nulla. Poi vennero la marcia dei quarantamila, la sconfitta alla Fiat, la guerra fratricida per la scala mobile, l’esplosione del rivendicazionismo e dei comitati di base.
Pensieri sparsi, in margine ai funerali del mitico leader della Cisl. Riflessioni sullo stato del sindacato. Auspici per il prossimo congresso della Cgil. Solidarietà contro egoismo, partecipazione contro populismo, generosità contro rancore. Queste dovrebbero essere le parole d’ordine. E poi unità, unità, unità. Le confederazioni, la Triplice, come la chiamavano i detrattori, sono le uniche sigle rimaste le stesse dopo il cambio di nome di tutti i partiti. Elemento di orgoglio ma anche segno d’immobilità. A che pro esistono ancora tre organizzazioni diverse, che fanno su per giù la stessa politica? Quello che Trentin definiva «ceto burocratico di intermediazione» si è espanso in modo elefantiaco e non molla l’osso. L’unità vorrebbe anche dire tanti capi e capetti in meno ed eliminare sedie e poltroncine non è mai facile. Eppure non si può vivere di autoreferenzialità, altrimenti prima o poi finisci come i dinosauri, ti estingui. O ti spazzano via come simbolo di uno stantio e sterile conservatorismo.
E poi il programma, il confronto di idee, l’elaborazione di proposte forti. Un tempo i sindacati erano crogiolo di studiosi e intellettuali, da Giuliano Amato a Vittorio Foa, da Gino Giugni a Ezio Tarantelli. Ora, calma piatta. E torniamo a suggestioni come quelle del fondo di solidarietà o della riduzione dell’orario, lavorare meno, lavorare tutti. Perché il nemico principale resta la disoccupazione. Era il 1979 quando lo stesso Carniti al congresso della Ces, la confederazione europea, profetizzava: «ll problema del nostro tempo non è soltanto il costo del lavoro, ma sempre di più, ed in tutti i Paesi, il costo economico, sociale e politico del non lavoro». Siamo sempre lì.
Resta il sospetto, per dirla ancora con il Trentin dei diari, che «le guerre per bande» siano ancora in corso, a tutti i livelli. Ma confidiamo che la successione a Susanna Camusso avvenga al termine di un dibattito talmente ampio e approfondito da segnare, stavolta è necessario, un cambio d’epoca. Un congresso aperto, alto, profondo. Tale da offrire spunti e contributi anche a quella Sinistra che deve rigenerarsi. C’è bisogno come il pane di un sindacato soggetto politico autonomo, forte, autorevole, capace di offrire una visione del mondo basata sull’uguaglianza e sulla libertà. Presidio della democrazia. Punto di riferimento per chi lavora, per chi il posto non ce l’ha, per chi è precario, per chi è sfruttato. Aboubakar Soumahoro, bracciante ivoriano amico di Soumalya Sacko, anche lui attivista sindacale come il giovane immigrato del Mali ucciso a colpi di fucile nelle campagne calabresi, afferma di ispirarsi al pensiero di Giuseppe Di Vittorio. Ripartiamo da qui.