Immaginate il grande capannone di un’azienda metalmeccanica. Anzi, immaginate un capannone nella cui parte centrale, fra pile di materiali poste ai lati, sia stato ricavato lo spazio sufficiente per ospitare parecchie file di sedie. Immaginate che queste sedie siano occupate da chi si è lì radunato per partecipare a un’assemblea. Immaginate adesso che l’oratore di turno dica cose di questo tipo: “Il contratto dei metalmeccanici ha introdotto elementi di solidarietà”. Oppure: “Dobbiamo combattere la precarietà”. E ancora: “La sicurezza sul posto di lavoro è un diritto, e deve diventare un’ossessione”. E infine: “L’industria manifatturiera sia una priorità nazionale. Serve una politica industriale”.
Beh, direte voi, e allora? Cosa c’è di particolare in questa descrizione? Effettivamente non ci sarebbe niente di straordinario, se si trattasse della cronaca di una delle tante assemblee sindacali che, a partire dall’autunno caldo del 1969, si sono tenute e si tengono all’interno delle fabbriche, proprio grazie ai diritti conquistati dai sindacati dei metalmeccanici con il contratto del gennaio 1970. E che poi, grazie a quanto sancito dallo Statuto dei diritti dei lavoratori, si sono via, via estese a tutti i luoghi di lavoro.
Ma il punto è proprio questo. Non stiamo parlando di un’assemblea sindacale, organizzata magari da Fim, Fiom e Uilm. No, stiamo parlando dell’Assemblea generale 2018 di Federmeccanica, l’associazione delle imprese metalmeccaniche aderenti a Confindustria. Un’assemblea annuale che, così come aveva auspicato nel 2017 a Reggio Emilia il nuovo Presidente, Alberto Dal Poz, si è tenuta oggi per la prima volta non in una qualche sede più o meno prestigiosa, ma nel capannone di una fabbrica; in questo caso la Telwin di Villaverla, in provincia di Vicenza. Stiamo parlando, ancora, di cosa ha detto lo stesso Dal Poz nella sua Relazione.
Ma allora che succede, potrebbe chiedersi un lettore di passaggio: il mondo sottosopra? No, più semplicemente una tappa, certo rilevante, nel percorso che Federmeccanica ha assegnato a se stessa in questi ultimi anni. Un percorso esplicitamente ideologico, nel senso che l’associazione degli imprenditori metalmeccanici si è convinta della validità di un’intuizione. L’intuizione secondo cui, in un mondo che cambia sempre più in fretta, anche il posto delle imprese metalmeccaniche deve cambiare. E secondo cui, soprattutto, deve cambiare l’immagine che l’impresa metalmeccanica italiana deve offrire di sé stessa non solo ai propri clienti, ma ai lavoratori, ai sindacati, alle forze politiche, alle Istituzioni. Per non dire a se stessa.
Ovviamente, nell’idea di impresa c’è un punto che, almeno dalla fine del Settecento, è rimasto immutato. Lo scopo ultimo di un’impresa è quello di creare ricchezza. E c’è poi, immutata, anche la consapevolezza del fatto che, per creare ricchezza, occorre produrre cose – beni o servizi – che possano essere vendute con profitto ai compratori che vorranno acquistarle. Ma, e questo è già un passaggio interessante, la Federmeccanica di Dal Poz, sviluppando un percorso già avviato dal suo predecessore Fabio Storchi, non concentra oggi la sua attenzione sulla domanda, ovvero sui mercati, ma sul modo, e quindi sul luogo, in cui l’offerta viene prodotta, ovvero sulla fabbrica.
A monte di questa nuova focalizzazione dell’attenzione di Federmeccanica, c’è, con ogni probabilità, une dei due principali fattori di cambiamento che Dal Poz ha evocato nella sua relazione: l’innovazione digitale. Perché è da qui che nasce tutto. Nasce, cioè, il passaggio dalla terza alla quarta rivoluzione industriale. Il passaggio dall’applicazione dell’elettronica – e quindi dell’informatica – ai processi produttivi, all’inserimento di tali processi nella rete delle reti, e quindi, ancora, alla cosiddetta internet of things, l’internet delle cose. Quel passaggio che ha dato luogo all’ormai citatissima Industria 4.0.
Cambiano quindi le tecnologie produttive, cambiano compiti e modalità di erogazione del lavoro umano, cambia il rapporto fra produzione e vendita e quindi, a monte, quello fra produzione e magazzino, fra produzione e utilizzo delle risorse energetiche, fra produzione e ricerca, e così via.
Le fabbriche possono diventare dunque meno rumorose, meno pericolose, meno sporche, perfino più gradevoli, mentre le distanze tra uffici e officine si attenuano, e con esse quelle fra operai e impiegati.
E’ quindi forse inevitabile, o comunque probabile, che in questo nuovo ambiente tecnologico, produttivo, economico e sociale, il capitale riscopra una sua antica utopia: quella di un capitalismo senza conflitto sociale.
Quel che è certo, è che, a cinquanta anni dal 1968, e a duecento dalla nascita di Marx, la Federmeccanica sembra aver mutuato dai gloriosi sindacati dei metalmeccanici tutta una serie di tratti culturali. In primis, l’orgoglio di categoria: noi, i metalmeccanici. Declinato sia come orgoglio produttivo, noi che produciamo il 50% dell’export italiano, sia come orgoglio relativo al proprio ruolo decisivo nelle relazioni industriali: noi che abbiamo fatto un contratto nazionale innovativo, anzi un contratto di rinnovamento. E poi, come si diceva un tempo, un certo fabbrichismo, ovvero un’attenzione concentrata su ciò che avviene dentro la fabbrica, e dunque sull’organizzazione del lavoro, sul rapporto fra uomini e macchine, fra lavoratori e gerarchia aziendale, eccetera.
Ne segue che gli imprenditori, e fra di essi Dal Poz, sono i primi a riconoscere ai lavoratori – senza timidezze, e anzi quasi con enfasi – la centralità del loro apporto alla produzione. Solo che il linguaggio usato da questi stessi imprenditori, per offrire tale riconoscimento, mette in mostra un rischio. Se i lavoratori, linguisticamente e quindi concettualmente, diventano collaboratori, e magari “i nostri collaboratori”, c’è appunto il rischio che le imprese, anche senza volerlo, starei per dire senza saperlo, sussumano concettualmente dentro di sé l’apporto dei propri dipendenti, senza riconoscere loro il diritto alla propria autonoma natura di lavoratori. Che, in quanto tali, e come si sa, non sono proprietari dei mezzi di produzione.
Resta comunque il fatto che il volto del mondo imprenditoriale metalmeccanico offerto da Dal Poz, è non solo più socialmente accattivante di quanto non fosse all’epoca di Valletta, o anche di Romiti, ma è effettivamente più up to date. Perché è vero che la digitalizzazione dei processi produttivi, in senso ampio intesa, non ha più bisogno dell’operaio massa taylorizzato, del tipo interpretato da Charlie Chaplin in una celeberrima scena di Tempi Moderni, quanto di operatori attenti e consapevoli, capaci di interagire con sistemi produttivi, allo stesso tempo, delicati e complessi. Così come è vero che se la qualità del prodotto è l’arma vincente in quei segmenti competitivi in cui sono inserite le imprese italiane, un clima disteso in fabbrica può essere l’elemento ecologico che favorisce una più convinta attitudine cooperativa dei prestatori d’opera.
Dal Poz, giovane imprenditore piemontese, attivo nel campo della componentistica auto, ha ricordato, non senza un certo orgoglio, che all’Assemblea dell’anno scorso, a Reggio Emilia, aveva detto che “a noi servono tre cose: impegno, impegno e ancora impegno”. La parola impegno è dunque diventata la parola chiave di questa Assemblea. Intendendo con essa, se abbiamo ben compreso, che le imprese metalmeccaniche devono oggi operare in un mondo dominato da due forze di cambiamento: la globalizzazione e, come si è detto, l’innovazione tecnologica (sub specie digitale). Ebbene, in un simile contesto, le imprese devono operare, innanzitutto a partire da se stesse, quel cambiamento del proprio modo di essere e di operare cui abbiamo sopra accennato. Solo che questo cambiamento culturale è molto faticoso. Ed è per questo che ci vuole impegno. Impegno a una propria ridefinizione in senso relazionale, ad esempio nei rapporti con i sindacati, e nel senso della propria concezione di sé, ad esempio nei rapporti con i propri dipendenti/collaboratori. Ma anche nel senso della propria responsabilità sociale, con uno sviluppo della propria attenzione alle questioni ambientali, e perfino della propria responsabilità politica, con l’assunzione di un profilo europeista.
“Non siamo solo noi o l’Italia nel suo insieme, ma è il mondo ad avere bisogno di Europa”, ha scandito Dal Poz. “L’Europa deve fare della questione industriale la questione europea”, ha poi incalzato Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria, nell’intervento conclusivo della giornata. Boccia ha esibito un europeismo convinto, ma non acritico. “Il patto di stabilità e crescita deve diventare un patto di crescita e stabilità. E ciò perché è la crescita a creare stabilità”, ha affermato con quello che non è un gioco di parole, ma l’abbozzo di un ragionamento in cui si può avvertire un’eco quasi keynesiana.
Aggiungendo, con una comprensibile concessione a un tema di stretta attualità, un messaggio al Governo del cambiamento, rappresentato in sala da Erica Stefani, Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie. “Al Governo – ha scandito Boccia – diciamo che occorre cambiare in meglio, e non distruggere.” Soggiungendo poi che “sulla questione dell’Ilva, ci giochiamo la credibilità del Paese”.
Un’ultima notazione. All’inizio del suo intervento, Dal Poz ha espresso il ringraziamento di Federmeccanica a Massimo Colombo che, da molti anni a questa parte, è stato il capo ufficio stampa dell’Associazione e che è ormai prossimo alla pensione. Vogliamo aggiungere a questo ringraziamento quello del Diario del lavoro. Perché se molti giornalisti, compreso chi scrive, hanno potuto raccontare ai propri lettori le complesse vicende del mondo metalmeccanico, visto dal lato imprenditoriale, lo si deve in buona misura alla sua cortese e competente disponibilità.
@Fernando_Liuzzi