La crisi della sinistra politica italiana e della rappresentanza sociale hanno radici lontane e da un punto di vista simbolico dalla fine degli anni ’90 quando a Bologna, tra la sorpresa generale, divenne sindaco Giorgio Guazzaloca. In quel caso l’arroganza della classe dirigente locale sottovalutò la candidatura di un “uomo del popolo” e gli oppose una persona di apparato che perse. Dalle sconfitte si può solo imparare, ma in questi 20 anni quella lezione è stata sottovaluta nella convinzione che il patto sociale del passato potesse essere valido per tutte le stagioni. Qualche anno prima Berlusconi fece la sua nota “discesa in campo” sconvolgendo lo scenario politico e sociale del paese con il suo mai risolto conflitto d’interessi.
L’aspetto trascurato dalle élite dell’epoca fu quello di tollerare la forma partito personale senza regole democratiche e nel breve periodo di governo non si intervenne per risolverlo. I partiti del Novecento, quelli nati dalla Resistenza e forgiatisi nel secondo dopoguerra durante il trentennio glorioso della crescita economica, dello sviluppo del welfare pubblico e di una classe media diffusa, furono oggetto di una narrazione denigratoria diffusa e a reti unificate. Attraverso quell’indottrinamento via etere si descriveva la militanza politica, ma anche quella sociale, come un disvalore. I populismi di oggi, diffusisi grazie alla rete apparentemente in una libera piazza di discussione aperta, hanno potuto prendere piede grazie alla cultura dominante diffusa dalla televisione negli anni del berlusconismo totalizzante.
Attraverso questa cultura l’impresa, indipendentemente dal suo valore sociale, è diventata un simbolo di benessere acritico e ha accecato molta parte della popolazione rispetto al fatto che gli imprenditori italiani si dimostravano sempre più efficaci nella speculazione piuttosto che nell’investimento in beni strumentali. Alla fine del secolo scorso la disoccupazione tornava a crescere, la precarietà del lavoro iniziava ad essere legalizzata e la moderazione salariale veniva sacrificata dal sindacato sull’altare dell’occupazione. L’invecchiamento della popolazione, con le sue conseguenze sulla tenuta del sistema di welfare pubblico, iniziava ad essere evidente, ma la linea Maginot della sinistra politica e sociale era rappresentata dalla conservazione a oltranza delle conquiste del Novecento. D’altronde per il sindacato e per le storiche associazioni di categoria erano anche gli anni della crescita del consenso in termini di iscritti e i bilanci garantivano una certa e illusoria serenità.
Quello che è mancato è stato il rendersi conto che una fidelizzazione associativa legata prevalentemente ai servizi avrebbe reso sempre più vulnerabili le organizzazioni di rappresentanza nel rapporto con gli steakholder. Il finanziamento pubblico degli stessi servizi che sono soggetti alle volontà politiche, l’aumento della precarietà del lavoro ha ridotto la media delle quote d’iscrizione, ma aumentato il lavoro di assistenza, e infine l’evoluzione tecnologica che nel tempo renderà sempre più autonomi i cittadini nel loro rapporto con la pubblica amministrazione. Il consenso verso le politiche, che pure si provavano ad implementare, scemava per diverse ragioni che per ragioni di spazio non potremo descrivere esaurientemente. Tra queste certamente un modello contrattuale sostanzialmente frammentato e nazionale che ha indebolito i salari reali e la qualità del rapporto di lavoro, l’incapacità di unire le forze rispetto alle divisioni ideologiche del passato, ma soprattutto la sottovalutazione dell’efficacia della rappresentanza in un contesto nel quale lo Statuto dei Lavoratori aveva fatto il suo tempo. In questo senso si è preferito mantenere lo sguardo allo specchietto retrovisore trascurando di mantenere la concentrazione sulla strada che stava portando un numero crescente di lavoratori nella direzione del precariato fino a far perdere a molti anche la dignità.
Potrà sembrare un paradosso, ma andrebbero ricostruite quelle reti sociali che nel Novecento permisero di redistribuire reddito e di porre le basi per la crescita economica condivisa attraverso la solidarietà tra le generazioni e le professioni.
La differenza rispetto ad allora la possiamo sintetizzare con il termine:”glocale” che nella letteratura sociologica europea è stato definito da una duplice azione di valorizzazione delle tradizioni attraverso le quale rendere competitiva l’economia di un luogo in ambito internazionale. L’Italia è un paese nel quale le disuguaglianze territoriali sono ormai abissali e questo è stato solo l’ultimo effetto amplificato dalla crisi di sistema iniziata nel 2008. La portata di questa crisi non è stata ancora del tutto compresa dalle parti sociali. Per cambiare paradigma dovremmo ripartire dai territori e dai loro eco-sistemi visto che non sarà il paese nel suo complesso a poter generare investimenti diffusi soprattutto laddove ce ne sarebbe maggiormente bisogno. In fin dei conti una parte di quella gloriosa crescita di benessere la dobbiamo al successo dei distretti industriali nei quali le reti sociali diedero risultati eccezionali in termini di coesione di capitale sociale.
La contrattazione collettiva, se vorrà dare risposte concrete alle nuove esigenze del lavoro e dei cittadini, dovrebbe necessariamente essere sempre più interconfederale e sempre più territoriale. Se si vorrà redistribuire reddito lo si potrà fare solo laddove esso verrà generato. Chi si illude che si possa tornare a fare sintesi in un settore come ai tempi dell’operaio massa che viveva tutta la vita nello stesso ambito e nel quale il suo progresso economico e sociale era determinato da un ciclo produttivo sostanzialmente stabile, si condannerà alla marginalità. Oggi l’unità produttiva è una definizione dinamica, in continua mutazione, nella quale i settori sono sempre più marginali e sono le professionalità nel tempo a determinare il benessere o il malessere di lavoratori sempre più atomici e sempre meno massa.
In una società che invecchia la redistribuzione dei redditi dovrà necessariamente essere garantita con servizi di welfare integrativo statuiti su misura rispetto alle esigenze delle specificità locali e sempre meno attraverso prestazioni di natura economica. In questo ambito le potenzialità anche occupazionali sarebbero enormi, ma soprattutto ne gioverebbe l’attrattività dei luoghi per le imprese e le persone. Nella scelta degli insediamenti produttivi saranno sempre più determinati dagli standard della qualità della vita. La storia economica mondiale dimostra che le esperienze più innovative, quelle che hanno permesso ad aziende piccole di conquistare i mercati mondiali e di crescere, si sono sempre sviluppate in luoghi nei quali erano state poste le condizioni per un clima di vita e di lavoro favorevoli.
Il futuro del sindacato e della rappresentanza collettiva in generale, dipenderanno dalla capacità che le organizzazioni complesse avranno di valutare i risultati della loro azione. Se queste analisi dovessero essere fatte con obiettività, allora siamo certi che anche le idee camminerebbero attraverso la loro circolazione alimentata in veri dibattiti di merito. In un certo senso il sindacato 4.0 nel quale nei quali tutti potrebbero sentirsi importanti e portare così un contributo alla causa del progresso della rappresentanza.
La lezione di Guazzaloca a Bologna non è stata compresa a fondo e i risultati delle recenti elezioni amministrative sono lì a testimoniarlo. La sinistra progressista che è stata protagonista del passato in molti paesi europei. Se saprà rifondarsi lo potrà fare comprendendo l’importanza del rapporto con il territorio anche se in un ambito di competizione economica globale.