Il dibattito aperto sulle colonne del Diario del Lavoro (i testi di Mascini e di Sateriale sono eloquenti al riguardo) tematizza più che in altre occasioni la necessità di un forte rinnovamento, una vera e propria svolta, per il nostro sindacalismo confederale.
Ne approfitto per integrare le ipotesi di lavoro che escono da questa discussione – e che sono largamente condivisibili- con tre tipi di osservazioni.
La prima è la seguente. Non è la prima volta nel corso degli ultimi anni che si è imposta nella discussione scientifica e politica l’istanza di una discontinuità dei sindacati, variamente declinata (crisi di rappresentanza, esclusione dei sindacati, abbandono della concertazione etc.). Cosa cambia oggi per rafforzare la cogenza di un passaggio di fase?
A mio avviso gli elementi di novità che hanno preso corpo negli ultimi anni – e che richiederebbero un salto di qualità nell’offerta sindacale – sono almeno due.
Uno si riferisce al fatto che mentre in passato le difficoltà sociali dei sindacati non mettevano in discussione il loro ruolo di architrave all’interno del mondo del lavoro, oggi quella fase appare tramontata. Una parte crescente di lavoratori, non solo quelli più instabili e più precari, mostra disagi crescenti e problemi almeno in parte nuovi, ma si muove lontano dall’orbita sindacale. In una recente indagine da me curata su un campione rappresentativo di lavoratori italiani i due terzi di questi dichiarano o di non essere iscritti o di non volere comunque rapporti con i sindacati. Questo è un dato emblematico del fatto che i sindacati, pur in presenza di domande e insofferenze crescenti ‘dentro’ il lavoro, non vengono visti come la soluzione più appropriata ‘tra’ i lavoratori.
Se dunque una parte della società dei lavori non guarda più – o non ancora – ai sindacati si aggiunge poi un ulteriore elemento terremotante, che poi costituisce la seconda novità con cui fare i conti. Dopo la grande recessione del 2008-09 i sindacati sono stati marginalizzati dai processi decisionali che hanno visto rafforzate la discrezionalità manageriale e l’unilateralità dei governi. L’Italia non solo non fa eccezione a queste tendenze più generali, ma le ha per certi versi rafforzate attraverso la teorizzazione esplicita della cosiddetta disintermediazione, che è stata praticata con alterne vicende, ma attraverso il ricorso all’idea popolare – anche se forse illusoria – che si possa fare a meno delle grandi organizzazioni sociali almeno nel decisionmaking pubblico. Una idea insidiosa perché attraversa tutto il campo politico dei paesi occidentali, e che da noi trova un punto di caduta in un governo di coalizione, come l’attuale, che nasce e si sviluppa anch’esso lungo l’asse di decisioni che preferiscono sostituire o supplire le parti sociali, piuttosto che cooperare con esse.
Dentro questi terremoti in corso la mia seconda osservazione consiste nel chiedersi perché non si sia fin qui verificato un cambiamento organizzativo e strategico dei sindacati, tale da fornire risposte convincenti a queste nuove sfide: che appunto come i terremoti tolgono ai sindacati da sotto i piedi (almeno una parte del) loro tradizionale terreno d’azione.
La mia risposta è duplice: non è affatto facile muoversi in questa direzione, ma questa volta ‘discontinuista’ non è stata perseguita con la determinazione necessaria. Non è affatto facile perché i sindacati sono grandi corpaccioni abituati ed immersi in alcune routine. Si può provare a riconvertire una parte di queste migliaia e migliaia di quadri. Ma se si vuole operare un cambio di marcia la strada migliore potrebbe consistere in un grande turn over tra una parte significativa dei quadri più anziani (che però spesso sono i migliori) e una nuova generazione più competente e più vicina sociologicamente alle domande di rappresentanza inevase. Alle organizzazioni servirebbe lo shock di una grande immissione di nuovi quadri, analogo a quello verificatosi alla fine degli anni sessanta. Con in aggiunta una difficoltà ulteriore. Che mentre circa cinquanta fa i sindacati hanno assorbito e istituzionalizzato un flusso di quadri che proveniva da un grande mobilitazione collettiva, oggi ad essi si richiede un’operazione strategica a freddo e dall’alto per forzare la relativa scarsità sociale e il minore appeal dell’attività sindacale. E a questo riguardo si può osservare come le tre Confederazioni qualcosa abbiano fatto in questa direzione, ma non abbastanza: certo si tratta di operazioni gigantesche e che richiederebbero risorse aggiuntive (che forse non ci sono). Ma esse non sono state perseguite anche per una ragione più di fondo: la testa e la cultura degli attuali gruppi dirigenti non sono proiettati in modo netto verso la parte della mela del lavoro che non si sente rappresentata e che spesso non vuole esserlo. La testa e la vulgata dei nostri sindacati restano in prevalenza prigionieri del loro ‘ iscritto mediano’: tendenzialmente lavoratore standard ed anziano (se non proprio pensionato). Debbono – dovrebbero – riposizionarsi sui lavoratori della Gig economy , dopo non essere pienamente riusciti ad intercettare neppure i lavori fluidi emersi con la new economy. Ma questa è divenuta una operazione indispensabile se si vuole coniugare la loro sopravvivenza e i miglioramenti nelle tutele del lavoro.Un’operazione di riposizionamento che avrebbe dovuto già avvenire anche e almeno in chiave simbolica e identitaria: perché sono i penta- stellati a fare dei riders una caso nazionale, e i sindacati hanno fatto poco per alimentare questa idea come una grande questione nazionale?
La terza osservazione si riferisce a che cosa si può fare, per favorire – anche culturalmente – questo cambiamento, sapendo bene che si tratterà di un processo che non avverrà in una sola tappa.
Non può esserci cambiamento senza una cultura di riferimento. Sarebbe bene che tutte e tre le Confederazioni mettessero in comune le loro forze e investissero di più insieme e in una sola struttura in questa direzione. Più ricerca sindacale e più vicinanza alla ricerca scientifica. Anche questo deve essere considerato come un canale privilegiato per collegarsi alle mutazioni sociali e per non pensare di parametrarle con le lenti adottate in precedenza. In questo modo si può aiutare la formazione di una nuova testa della classe dirigente (e forse una nuova classe dirigente).
Mi sembra poi che l’approccio da preferire sia quello cui allude anche Sateriale: una ricostruzione dal basso e da vicino, in grado di plasmare un nuovo reticolo sociale ed organizzativo ma a ridosso del lavoro che c’è e che ci sarà. Tutti i sindacati occidentali si interrogano su questo, e in varie forme e lessici – organizing , coalizioni sociali , reinsediamento etc. – questa appare la risposta più promettente : ripartire da ‘dentro’ i lavori vari e spezzettati, come aveva già tanto tempo fa avvertito Accornero. Non si parte da zero – come bene argomenta Sateriale – ma piuttosto si tratta di concentrarsi su esperienze socio-contrattuali che già funzionano, come quelle territoriali, con lo scopo di rafforzarle ed estenderle.
Questo significa anche indicare per questa via una priorità qualitativamente diversa da quella spesso praticata in modo privilegiato negli anni scorsi dai nostri sindacati: la pressione, variamente intensa e in varie modalità, verso la politica e le istituzioni. Ovviamente questo non significa che non sia necessario un cambiamento in questa sfera: solo che esso non può essere la premessa o il punto di partenza. Deve essere piuttosto visto come una ricaduta da coltivare di questo ritrovato smalto ‘dentro’ la società e ‘dentro’ i lavori al fine di rielaborare anche radicalmente il ruolo dello Stato e delle relazioni industriali.
Piuttosto diventa importante pensare ‘alto’ per aggredire la parte ‘alta’ del nostro sistema politico. Il lavoro prossimo futuro promette di essere più ricco di conoscenze e più scarso di posti, a meno che una grande immaginazione sindacale (ma anche delle imprese) non saprà aiutare la messa a punto di una nuova regolazione sociale ed economica: orari di lavoro più ridotti e flessibili, creazioni straordinarie di impieghi e interventismo strategico dello Stato, politiche di accompagnamento dei cambiamenti e protezioni, di vario tipo, dei redditi e dei diritti sociali di cittadinanza. Questo è il campo intorno al quale dovrà esercitarsi in chiave propositiva l’intelligenza sindacale prossima futura.