I sondaggi sono spietati. Se si votasse domani la coalizione giallo-verde (tralasciando la spartizione interna tra i due partiti) arriverebbe a ‘’quota 60’’. Ammesso e non concesso che Lega e M5S continuassero a governare insieme. Gli sconfinamenti dai campi riservati ai due contraenti, a cui è seguita l’assegnazione dei dicasteri, comincia a provocare qualche frizione. Le esibizioni muscolari di Matteo Salvini per quanto riguarda la questione dei profughi determinano qualche mal di pancia nel fronte alleato (da ultimo il ministero della Difesa ha lamentato una invasione nei suoi ruoli, poche ore dopo la presa di distanza del ministro della Giustizia sull’ukase del leader della Lega verso il presidente della Repubblica a proposito dei fondi del Carroccio). Salvini, però, ha tirato diritto per la sua strada, rivolgendo considerazione persino beffarde nei confronti del ministro Trenta, dimostrando ancora una volta che l’uomo forte della coalizione è lui (a proposito, che fine ha fatto il presidente Conte?). D’altra parte, il decreto (in)degnità sta suscitando delle riserve nell’elettorato della Lega, tanto che il testo non è ancora disponibile (il gaffeur Di Maio non sapeva – lo ha ammesso con candore – che sulle norme di spesa è necessaria la ‘’bollinatura’’ della RGS). Una cosa però è chiara ed è sempre più inquietante: se la suonano e se la cantano tra di loro; l’opposizione è scomparsa, non dà ancora segni di vita. Ci fu un tempo, nelle vicende del comunismo internazionale, in cui si verificò una grave frattura tra l’Urss e la Cina. I partiti comunisti europei, allineati con Mosca, non se la sentivano di prendere di petto il gigante cinese e polemizzavano con l’Albania, allora schierata con Pechino. Ci volle uno come Giancarlo Pajetta per rompere questo andazzo: l’esponente comunista dichiarò infatti che il Pci non aveva bisogno di criticare l’Albania per dissentire dalle posizioni di Mao.
Perché abbiamo ricordato questa vicenda ormai sepolta – insieme con i suoi protagonisti e con il comunismo stesso – dal trascorrere del tempo? In fondo, a pensarci bene, i due maggiori partiti d’opposizione hanno trovato una loro Albania con cui prendersela. Silvio Berlusconi resta attaccato alla coalizione di centro destra (sperando di essere trascinato per inerzia al governo quando Salvini deciderà di dare la spallata decisiva) e si limita a fare e a scrivere delle critiche durissime contro i pentastellati (come se Salvini non facesse parte della medesima maggioranza). Ma Silvio sa che la caccia ai negher è un argomento che fa presa pure sugli scampoli del suo elettorato. Il Pd, invece, ha un occhio di riguardo per il M5S (una parte consistente del suo gruppo dirigente – lo si è visto all’Assemblea nazionale – è pentito di non avere fatto l’accordo con i grillini e, tutto sommato, condivide le proposte di Di Maio in materia di lavoro). Per loro l’avversario da battere è il leader della Lega, ma con molta prudenza visto che sul tema dell’immigrazione la percezione continua a prevalere sui dati di fatto. E la gente si è messa a votare secondo ciò che percepisce.
La posizione dei dem è disarmante. All’Assemblea nazionale non sono stati in grado di compiere un’analisi seria delle sconfitte elettorali; si sono limitati a preconizzare lo svolgimento di un Congresso palingenetico senza riuscire ad imbastire – ora e subito – qualche contenuto di iniziativa politica. Matteo Renzi (che rimane pur sempre il miglior fico del bigoncio) è stato ingeneroso (verso Paolo Gentiloni) e un bel po’ reticente. L’elencazione dei motivi della sconfitta hanno riguardato aspetti totalmente irrilevanti al pari di una spruzzata di borotalco dopo il bagno. Poca ‘’rottamazione’’ (ma se si è contornato di servi sciocchi con il peso specifico di una piuma!); essere divenuti parte dell’establishment (‘’e che male c’è?’’ ha chiesto Renzi ai nostalgici dell’eskimo); le liti interne (qui qualche ragione ce l’ha, ma non è determinante); aver corteggiato Giuliano Pisapia (ci sarebbe voluto poco a capire che era un bluff, ma anche questo è un errore a cui si è posto rimedio in tempo, tanto che gli italiani non se ne erano neppure accorti); assenza dai network e da internet (ma come? Se Matteo era sempre lì a digitare!). Nessuno di questi argomenti presenta un minimo di spessore politico. Gli Italiani meriterebbero di conoscere che cosa pensa il Pd del jobs act, della difesa, nella sostanza, della riforma Fornero delle pensioni, dell’equilibrio dei conti pubblici, della riduzione del debito, dei rapporti internazionali ed europei (correttamente ristabiliti grazie a Gentiloni), delle politiche economiche e finanziarie compatibili con gli accordi stipulati nell’ambito Ue e quant’altro.
Una parte del Pd si dimostra pentita. Quando l’ex ministro Orlando afferma ‘’basta con Blair’’ (va bene Corbin, allora?) e quando Nicola Zingaretti, candidato a salvare il partito, evoca il fallimento delle società occidentali a causa delle politiche liberiste (ma ne esistono delle diverse che non siano quelle di Maduro?) è chiaro che nella loro testa si è incuneata l’abiura per le politiche riformiste portate avanti nella XVII legislatura. Quando Cesare Damiano dichiara che talune misure contenute nel decreto (in)degnità le aveva proposte lui (ed è vero), ma Renzi gli ha impedito di portarle avanti; quando Sergio Cofferati apprezza le norme sulla mortificazione del contratto a termine, che cosa possiamo aspettarci? Dario Franceschini con la sua cadenza ferrarese chiede persino di dialogare con l’elettorato ‘’grillino’’ che i dem avrebbero spinto tra le braccia di Salvini (amor che a nulla amato amar perdona). E i sindacati? Luigi Di Maio evita di sfidarli sul terreno della innovazione; preferisce lusingarli su quello della conservazione. Ed ha buon gioco a farlo. Ha ragione Marco Bentivogli: il populismo politico nasce dal populismo sindacale, dalla pretesa di vivere in un mondo sempre uguale a sé stesso, dove è il sole che gira intorno alla terra perché quando Giosuè gli ordinò di fermarsi il sole obbedì. Così si può imporre anche al precariato di sparire. Tornando alle ‘’imbarazzanti’’ critiche di Renzi a Gentiloni va certamente respinta, tra le altre, al mittente quella che riguarda l’abolizione dei voucher. Che cosa avrebbe dovuto fare il governo? Sottoporsi ad un ulteriore referendum per incassare un’altra sconfitta? Per fare di un rapporto di lavoro tutto sommato marginale (preso casualmente di mira da un sindacato che dei ‘’pizzini’’ faceva ampio utilizzo) l’autodafè contro il precariato? La ripetizione di una consultazione – inutile e viziata di ideologismo come quella No Triv – ma che avrebbe spaccato nuovamente il Pd? Oggi la priorità è una sola: impedire che le bandiere del riformismo siano trascinate nel fango. Perché non è garantito che prima o poi arrivi qualcuno in grado di risollevarle.