Archiviata ‘’L’Internazionale’’, dismessa ‘’Bandiera rossa’’, dimenticata l’ulivista-veltroniana ‘’La canzone popolare’’, il nuovo inno dei Dem è diventata la ballata-parodia di Antonello Venditti ‘’Il grande raccordo anulare’’ di Corrado Guzzanti. Se ne avvertivano nell’aria le note assistendo al pellegrinaggio di Maurizio Martina e compagni (tra cui abbiamo intravisto Tommaso Nannicini) a Tor Bella Monaca, la prima delle ‘’periferie’’ dalle quali intende ripartire la rinascita del Pd. Si è trattato quasi di dover scontare una penitenza per aver troppo peccato. Con il capo cosparso di cenere, con il cilicio sotto il saio, i nostri sono andati per ‘’ascoltare’’ i problemi della ‘’gente de borgata’’ e non per ‘’parlare’’ (anche perché non avrebbero avuto niente da dire). Non conosciamo il tenore del dibattito, salvo un lungo recriminare per il tempo trascorso senza che qualcuno si facesse vivo, la subitanea promessa di incontrarsi più spesso, le perplessità degli ospiti sul mantenimento di quell’impegno. Con tutto il rispetto sia per i residenti di Tor Bella Monaca sia per i dirigenti del Pd ‘’che fecero l’impresa’’, a me la novena in periferia è sembrata un’esperienza patetica e tutto sommato una excusatio non petita, perché a sbagliare il 4 marzo non è stato – anche se ne ha combinate più di Carlo in Francia – il gruppo dirigente Dem, ma quel popolo a cui sono andati a chiedere scusa, il quale si è lasciato convincere più che dal complesso linguaggio di una politica riformista, dai facili slogan della Lega (fuori i negher, ruspa per i campi Rom) e quelli salvifici del M5S (onestà perché sono tutti ladri). Certo è facile criticare queste persone, che, nelle periferie delle grandi città sono in prima linea ad affrontare le contraddizioni più dure delle migrazioni e delle diversità etniche, ma esse lamentano situazioni e condizioni di disagio reali, a cui non si può rispondere con le parole della Dichiarazione di indipendenza degli Usa e cioè che ‘’tutti gli uomini sono creati uguali’’. C’è allora da portare avanti una battaglia delle idee, ritrovare la capacità ‘’educativa’’ che ha avuto il Pci nel difendere scelte spesso difficili, senza rinunciare mai a trasformare il sottoproletariato in classe operaia. Quale è allora la questione vera? Anche se in democrazia i voti non hanno odore (e nelle urne è giusto che uno valga per uno), a un partito erede di grandi tradizioni non è concesso seguire l’onda del populismo. O è in grado di affermare le proprie convinzioni attraverso l’impegno e la lotta politica, oppure è meglio lasciar perdere. Non è ammesso contrastare la Lega e i pentastellati scendendo sul loro terreno e scusandosi di non averlo fatto prima. Ormai nelle anime belle del Pd aleggia un vezzo autocritico: il partito vince ai Parioli, mentre perde ai Cessati Spiriti; ciò significa che c’è un problema. E perché? Non c’è nulla di male ad affrontare e a cercare di capovolgere questa situazione. Attenzione però: Péron vinceva tra i descamisados; Lauro con la distribuzione a rate – prima e dopo il voto- di un paio di scarpe; Maduro ascolta ed accontenta le sue periferie, ma in Venezuela la gente ha fame. Hanna Arendt ha scritto parole significative quando ha ammonito a non confondere la plebe con il popolo. La prima – scriveva – è solo la caricatura del secondo.
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