Domenica 22 luglio, la stampa italiana ha dato il meglio di sé per ciò che riguarda il suo rapporto con la figura e con l’opera di Sergio Marchionne. Allarmate dalle inattese notizie sul precipitare delle condizioni di salute dell’Amministratore delegato di Fca – notizie rese ancora più drammatiche dalla convocazione improvvisa dei Consigli di Amministrazione di Fca, CnhI e Ferrari per procedere alla sostituzione immediata di Marchionne da tutti i suoi molteplici incarichi – le maggiori testate della nostra editoria quotidiana hanno messo all’opera, contemporaneamente, le proprie migliori firme, affidando loro il compito di stendere articoli a metà fra l’analisi di fase e il bilancio storico, con qualche tratto di ricordi personali.
Nello stesso giorno, il lettore ha così avuto l’imbarazzo della scelta fra ottimi pezzi di seri analisti delle nostre vicende industriali, come Paolo Bricco sul “Sole 24 Ore” e Dario Di Vico sul “Corriere della Sera”, di riconosciuti esperti del settore auto, come Paolo Griseri su “Repubblica” e Raffaella Polato, ancora sul “Corriere”, o di stimati docenti universitari, come Giuseppe Berta su varie testate.
Ma nei 14 anni lungo i quali si è snodata l’azione di Marchionne, prima come Ad di Fiat, dal 2004, e poi come Ceo di Fca, nel secondo decennio del nostro secolo, le cose non sono andate sempre così. Si potrebbe anzi dire che, nonostante il meritorio lavoro svolto nel tempo da analisti come Andrea Malan sul “Sole 24 Ore”, l’opinione pubblica italiana, nel suo complesso, non ha capito Marchionne. E ciò, appunto, non perché il sommarsi del lavoro delle maggiori testate e di fonti specializzate non abbia messo a disposizione del pubblico elementi di informazione e di riflessione sufficienti per capire l’opera del manager dei Due Mondi, ma perché il discorso pubblico, in Italia, non ha offerto a questi elementi un ambiente adatto a una loro fruttuosa diffusione.
Uno dei tanti paradossi italiani, infatti, sta in questo. Da un lato, l’Italia è, notoriamente, un grande paese industriale. Per essere precisi, la nostra industria manifatturiera è la seconda d’Europa. Il che vuol dire che siamo secondi solo alla Germania. E che, quindi, veniamo prima non solo di Spagna e Polonia, ma anche di Francia e Regno Unito. Dall’altro lato, però, nel nostro Paese non c’è una diffusa cultura industriale. O anzi, per meglio dire, la cultura industriale – che esiste ed è diffusa, altrimenti il nostro tessuto sociale non sarebbe vivificato da tante imprese produttive (piccole, sì, ma anche medie e grandi) – non arriva a improntare di sé il discorso pubblico.
Ora non è questa la sede adatta per azzardare anche solo qualche ipotesi che spieghi la genesi di questo paradosso reale. Qui possiamo solo prenderne atto. E constatarne le conseguenze. Conseguenze fra cui c’è anche quella cui accennavamo sopra: in 14 anni di sua attiva presenza, l’Italia, intesa come discorso pubblico prevalente, non è riuscita a capire Marchionne, ovvero a capire il senso di ciò che questo singolare manager veniva facendo.
Più in particolare, attorno alla sua figura si sono venuti aggrumando tre ordini di idee sbagliate, peraltro inevitabilmente collegate fra loro. Vediamole dunque, una per una.
Prima: la connotazione politica. Attorno a Marchionne, a partire dal famoso referendum relativo allo stabilimento di Pomigliano d’Arco (giugno 2010), si è creata la leggenda che fosse, o quanto meno fosse diventato, un uomo di destra. La sinistra lo ha attaccato, vedendo in lui un odioso prevaricatore dei diritti acquisiti dei lavoratori metalmeccanici, nonché l’uomo che aveva messo la Fiom-Cgil fuori dalle fabbriche del gruppo Fiat. La destra, per converso, lo ha osannato. Anche con argomenti beceri, come ancora ieri ha fatto Vittorio Feltri su “Libero”.
Seconda: la connotazione sindacale, strettamente intrecciata con la prima. Marchionne è piaciuto alla destra non solo perché aveva sconfitto la Fiom prima a Pomigliano e poi a Mirafiori (dicembre 2010), ma perché, nel 2011, era uscito da Confindustria. La destra ha quindi visto in lui l’uomo che aveva saputo rompere ciò che la destra riteneva fosse il soffocante quadro concertativo cui le relazioni industriali si erano ispirate, in Italia, almeno a partire dal famoso Protocollo Ciampi del luglio 1993. E lo ha lodato, anche con argomenti colti, come ha fatto il “Foglio” quando, negli anni del quarto Governo Berlusconi (2008-2011), pensava a sé stesso come a un giornale di destra. O come hanno fatto altri più tardi, quando qualcuno si è immaginato di poter vedere in Marchionne l’antesignano di Renzi e della sua disintermediazione. Ma ciò che piace alla destra, ovviamente, spiace alla sinistra. Dal che è derivata una reiterazione polemica dell’immagine, a nostro avviso infondata, di Marchionne come uomo di destra.
Terza: la connotazione industriale. Specie a sinistra, più d’uno ha dato credito, a partire dalla crisi globale scoppiata nel 2008, a una tendenziosa contrapposizione teorica tra finanza e industria manifatturiera. Contrapposizione secondo cui la prima, mirando solo a “fare soldi per mezzo dei soldi”, tenderebbe a distruggere la seconda. Ebbene, in base a questo schema, Marchionne è stato considerato come un abile uomo di finanza, ma molti dubbi hanno circondato la sua figura di dirigente di un importante gruppo manifatturiero.
Ora perché, a nostro avviso, queste tre immagini sono tutte sbagliate? Perché impediscono di vedere, e anzi negano, il punto fondamentale dell’azione di Marchionne.
E ciò, innanzitutto, a partire dalla terza delle nostre idee sbagliate. Perché un’analisi ravvicinata delle vicende industriali contemporanee, già a partire almeno dagli anni 80, ci dice che non esiste, nel capitalismo reale, una contrapposizione strutturale fra finanza e industria. Specie negli Stati Uniti, infatti,la Borsa è il luogo in cui i soldi dei risparmiatori, piccoli o grandi che siano, diventano quelle risorse finanziarie che, assommandosi, vanno a inverarsi in quanto capitale negli investimenti industriali. Mentre poi la produzione manifatturiera, resa possibile dall’afflusso dei capitali di provenienza borsistica, avvia quel processo sociale che consente, con la vendita dei prodotti, di realizzare quei guadagni che andranno poi a remunerare investitori, proprietari delle aziende e lavoratori.
Ebbene, fin da quando, il 1° giugno del 2004, diventò Amministratore delegato del Gruppo Fiat, Marchionne ebbe chiare davanti a sé almeno tre idee. Primo, che lo scopo di un’impresa capitalistica è quello di produrre profitti. Secondo che, nel campo dell’industria manifatturiera, per produrre profitti bisogna fabbricare dei prodotti – ad esempio auto, furgoni, camion, trattori – che possano essere venduti a un prezzo tale da realizzare un adeguato profitto. Terzo, che la missione cui è chiamato un Amministratore delegato è quella di mettere in pratica quanto descritto nel punto uno. Dopodiché, il resto viene di conseguenza.
Come è stato ampiamente e ripetutamente spiegato, fin da quando assunse l’arduo compito di guidare la Fiat, a Marchionne fu chiaro che, a quel momento, il gruppo era “tecnicamente fallito”. Dopodiché mise a segno il primo dei suoi colpi da maestro. Innanzitutto, convinse la General Motors a uscire da un accordo, negoziato qualche anno prima da uno dei suoi predecessori, Paolo Fresco, in base al quale, in certe condizioni, la stessa General Motors avrebbe dovuto comprare la periclitante Fiat. Dopodiché, in cambio di questa uscita da un accordo che si presentava come non più conveniente per la casa costruttrice americana, Marchionne riuscì a farsi dare un bel gruzzolo che impiegò per ripartire con la produzione di un nuovo modello di successo: la 500. Quindi ecco il vero schema Marchionne: prendere i soldi dove si riesce a prenderli e poi usarli per produrre e fare altri soldi, altro che storie.
Successivamente, nel 2009 colse l’occasione offerta dalla crisi globale esplosa nel 2008 per acquisire, praticamente a costo zero, la più piccola delle tre grandi case costruttrici di Detroit, la Chrysler. E riuscì a farlo avendo convinto il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che la Fiat aveva le tecnologie giuste per imprimere la svolta che avrebbe riportato in vita la morente azienda di Auburn Hills.
Nasce così la Fca. E non è quindi vero, come molti hanno detto e ripetuto, che Marchionne ha portato la Fiat fuori dall’Italia. Così come non sarebbe vero se qualcuno dicesse che ha portato la Chrysler fuori dagli Usa. In realtà, coerentemente alla filosofia da lui delineata fin dal 2008 – filosofia in base alla quale per poter realizzare un efficiente impiego del capitale nel settore auto sarebbe stato necessario che il numero delle grandi case costruttrici si riducesse -, Marchionne aveva unito due aziende grandi ma, relativamente, minori. E lo aveva fatto creando un’azienda non solo e non tanto multinazionale, ma veramente globale, con sede legale in Olanda, sede fiscale a Londra, centri direzionali a Detroit e a Torino e stabilimenti in varie parti del mondo.
Un’impresa globale, dunque, ma dotata anche di una sua specifica caratteristica. Perchè la sua struttura proprietaria è un po’ particolare, a metà tra il capitalismo familiare italiano e la public company americana. Tal che il Ceo deve soddisfare non solo le esigenze dell’azionista di riferimento, ovvero di Exor, derivata 2.0 di Ifi e Ifil, le vecchie casseforti di casa Agnelli, ma anche quelle degli investitori ansiosamente attivi a Piazza Affari e a Wall Street.
Ed è da qui, da questa costruzione, che nasce poi, nel 2010, lo scontro con la Fiom a Pomigliano e, successivamente, l’uscita da Confindustria.
Marchionne, ovviamente, non ha mai avuto nessunissima intenzione di rivoluzionare il sistema delle relazioni industriali nel nostro Paese. Così come non ha mai avuto intenzione di contrapporre, in base a una scelta ideologica, la contrattazione aziendale alla contrattazione nazionale.
Più semplicemente, ha ritenuto che i rapporti fra la nuova Fca e i suoi dipendenti italiani non facessero parte del contesto nazionale italiano, quello definito dal Contratto nazionale dei metalmeccanici, ma di un contesto sovranazionale, e che quindi le dinamiche delle relazioni sindacali fra gruppo Fca-CnhI e lavoratori dovessero rispondere a logiche e a ritmi, da un lato, interni all’insieme degli stabilimenti italiani del gruppo stesso e, dall’altro, connessi alla sua dimensione sovranazionale.
Da questo punto di vista, crediamo di non sbagliare se affermiamo che Marchionne, dopo aver previsto – col piano Fabbrica Italia, nell’aprile 2010 – la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese, ha sempre cercato di evitare che qualcosa di simile potesse ripetersi per quello di Pomigliano d’Arco. Allo stesso modo, a nostro avviso, Marchionne non ha mai cercato lo scontro con la Fiom. Al contrario ha proposto, proprio in relazione allo stabilimento di Pomigliano, un accordo innovativo che, indubbiamente, rendeva più gravosa la prestazione, tagliando dieci minuti di pausa al giorno, ma lo faceva nell’ambito di una scelta strategica volta ad assegnare allo stabilimento campano nuove missioni produttive e, con esse, un più solido futuro.
Fim e Uilm accettarono questa forma di “scambio politico” relativa a quello stabilimento, la Fiom – o, per dir meglio, la sua maggioranza – no. E da qui nacque quella battaglia che si trasformò poi, mediaticamente, in un duello fra lo stesso Marchionne e Maurizio Landini, allora appena eletto alla carica di Segretario generale della Fiom.
Ora, per chi ha seguito da vicino quei giorni infuocati, è abbastanza evidente che, come detto, Marchionne non cercò quello scontro, ma ne trasse vantaggio. Cosa c’era di meglio che esibire agli occhi degli investitori americani o, comunque, globali, l’immagine di un Amministratore delegato capace di tenere fieramente testa al capo di un sindacato forte e militante come la Fiom? Cosa c’era di meglio che esibire l’immagine di un Ceo che, anche in un paese particolare come l’Italia, è capace di resistere all’offensiva di un sindacato rosso, mettendolo in minoranza, via referendum aziendale, in mezzo ai lavoratori?
È anche evidente che la successiva scelta di portare Fca e CnhI fuori dalla Confindustria non rispondeva a un presunto disegno volto a rinnovare il sistema delle relazioni sindacali in Italia, ma, più semplicemente, al duplice scopo di risparmiare i costi associativi e di tirarsi definitivamente fuori dal sistema della contrattazione interconfederale o nazionale di categoria. Ma ciò, anche qui, non per contrapporre la contrattazione aziendale a quella nazionale. Infatti, le voci che ogni tanto si levano a sostenere che la prima, definita magari “contrattazione di prossimità”, sarebbe da preferirsi alla seconda, di solito non prevedono la cancellazione totale del contratto nazionale, quanto un suo ridimensionamento e, in parallelo, un rafforzamento della contrattazione aziendale o di gruppo. Nel caso di Marchionne, invece, lo scopo era, come detto, quello di costruire una “terza via”, ovvero un accordo nazionale di gruppo, poi definito Contratto collettivo specifico di lavoro, che ricavasse un senso anche dalle robuste proporzioni del gruppo stesso, oltre che dalla sua proiezione sovranazionale.
Ora è vero che questa scelta è stata contrastata fieramente prima dalla Fiom e poi, subito dopo, dalla Cgil, ma ciò non autorizza nessuno a considerare Marchionne come un manager antisindacale. Basti pensare al fatto che tutta l’operazione volta prima ad acquisire e poi a rivitalizzare la Chrysler è stata condotta in pieno e costante accordo con la Uaw, il potente sindacato dell’auto a stelle e strisce.
Avendo studiato filosofia, il Marchionne manager è stato anche un uomo di pensiero. Nel senso che in numerose e successive occasioni, quali interviste o interventi tenuti ai saloni internazionali dell’auto o in altre circostanze, ha sempre teso a spiegare quali fossero le motivazioni delle scelte strategiche da lui fatte di volta in volta in questi densi 14 anni passati al timone della Fiat prima e di Fca poi. Adesso che la sua opera di manager appare chiusa definitivamente, ci sarà molto materiale per tornare ad analizzare, complessivamente, la sua azione. Sarà così possibile superare l’incomprensione che il nostro Paese gli ha ingiustamente riservato.