Venticinque anni fa, tra il 22 e il 23 luglio 1993, fa i suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini hanno segnato la fine della seconda repubblica. Ma hanno segnato, anche, la fine della grande industria chimica italiana. L’idea di realizzare con l’Enimont un grandioso polo pubblico-privato era stata, all’epoca, la migliore idea di politica industriale messa in campo da molti anni, ma anche l’ultima: dopo, non c’è stato più nulla. E chissà come sarebbe oggi l’Italia se Enimont avesse avuto successo, se non si fosse trasferita nel giro di pochi mesi dalle pagine economiche dei giornali alla cronaca giudiziaria e poi addirittura alla nera, trasformandosi in un noir a base di sangue, morti, tangenti, misteri. Con gli anni, la vicenda giudiziaria ha cancellato quella industriale, e oggi Enimont e’ scolpita nella storia solo per il processo chiave di Tangentopoli e per la maxi tangente. Ed è questo l’aspetto che oggi tutti ricordano. Ma non era quello il progetto, non era quella la sostanza.
Intanto, vediamo com’era a metà degli anni Ottanta il quadro che portò alla joint venture pubblico-privato. La chimica, in crisi da anni, era devastata da pesanti ristrutturazioni che riguardavano sia la chimica pubblica dell’Enichem sia quella privata della Montedison. Per uscire dal ripetersi periodico delle crisi si pensò di creare un polo chimico nazionale, mettendo insieme le due strutture e integrandone le attività: non aveva senso mantenere due produttori che avevano entrambi difficoltà a stare sul mercato. D’accordo con questa impostazione anche il sindacato, come ricorda Sergio Cofferati, all’epoca segretario dei Chimici Cgil: “Unendo le forze di pubblico e privato in un’unica società avremmo avuto dimensioni di scala e risorse per fare investimenti e sviluppo. Un progetto che sostenevamo noi, come sindacato, ma anche tutti gli economisti dell’epoca”.
Fin dalla nascita la società era già un gigante: 15.500 miliardi di lire di fatturato, 50 mila dipendenti. Potenzialmente, uno dei primi gruppi mondiali. L’Italia sarebbe stata fortissima in molti settori chiave, a partire dalle materie plastiche. Inoltre, avrebbe potuto contare sull’approvvigionamento di materia prima, con l’Eni, mentre Montedison avrebbe messo i grandi impianti petrolchimici necessari al processo di trasformazione. Se poi si fosse completata l’integrazione con le altre produzioni della Montedison -come avrebbe voluto Gardini, osteggiato pero’ dal socio pubblico- l’Italia sarebbe balzata ai primi posti mondiali non solo nelle plastiche, ma anche nella biochimica, nei materiali speciali, nella farmaceutica, nei fertilizzanti, nel fluoro, nelle fibre e nell’agroindustria.
Scavando tra le macerie dell’Enimont oggi si trovano ancora le tracce dei nostri tesori industriali perduti: Erbamont, leader mondiale nei farmaci antitumorali, Ausimont, numero due al mondo nella chimica del fluoro, Himont, leader mondiale nelle plastiche avanzate, Novamont, cui si deve la scoperta e la commercializzazione del Mater Bi, la prima plastica ecologica prodotta dal mais.
Quanto varrebbe oggi tutto questo in termini di Pil? Difficile da calcolare, ma quel che è certo è che poteva nascere uno dei maggiori poli chimici al mondo, invece è stato un pasticcio, un puzzle di cui nemmeno una tessera è andata al posto giusto. La guerra tra la parte pubblica, che non voleva cedere al privato, e il privato, che puntava alla supremazia, ha fatto sì che la gestione risultasse fin dall’inizio disastrosa. Le grandi privatizzazioni erano di là da venire, arriveranno solo negli anni successivi e peraltro con risultati discutibili; in ogni caso, nel 1993 l’idea di una chimica tutta privata sembrò una bestemmia.
Una storia tipicamente italiana, dunque, non tanto e non solo di corruzione, quanto di arroganza e incompetenza. Nessuno ne esce bene. Non Gardini, che non ebbe la pazienza di cercare una soluzione condivisa, ma iniziò a spargere mazzette e miliardi a pioggia per comprarsi su due piedi il consenso. Non l’Eni, in cui parte dei manager osteggiava una operazione che avrebbe ridimensionato il loro potere. Non la Mediobanca di Enrico Cuccia, tra i principali registi del pasticcio. Non la politica, che dava una parola e il giorno dopo la ritirava, seminando di inciampi il percorso della società, lesinando investimenti e ritardando decisioni.
La fine è nota. Dopo un breve braccio di ferro –“resto, vado, vendo, compro”- Gardini uscì di scena e la chimica rimase pubblica, come la politica desiderava. Malgrado la lunga battaglia per tenersela, però, l’Eni l’ha poi sostanzialmente abbandonata, indirizzando le proprie attenzioni verso il più remunerativo business dell’energia, petrolio e gas. L’ultimo pezzetto di chimica rimasto nel gruppo, Versalis, è stata a un passo dall’essere a sua volta ceduta un paio di anni fa, si è salvata solo per la tenace opposizione alla vendita da parte dei sindacati.
Quanto a Montedison, dopo il crack Ferruzzi è stata cancellata e venduta a pezzi per fare cassa e ripianare i debiti. Una svendita da affari d’oro, però. Almeno per chi vi ha partecipato come acquirente, vale a dire una lunga serie di giganti internazionali del settore: Himont è oggi della statunitense Lyondell, Ausimont è della Solvay, la Edison, dopo molte peripezie, è diventata francese. E ancora: Tecnimont, ingegneria civile, è stata venduta alla Maire Engineering, i fertilizzanti di Agrimont sono andati alla Norsk Hydro, la Farmitalia-Carlo Erba, gioiello della ricerca farmacologica, è stata suddivisa tra il colosso Pfizer e la Fidia farmaceutica.
Non è facile calcolare quanto varrebbero oggi quei 15 mila miliardi di fatturato dell’Enimont, quei 50 mila dipendenti, e soprattutto quell’enorme patrimonio di ricerca, di innovazione, di tecnologia. Di certo la società aveva una solida base di partenza per crescere ancora molto. Ma quanto, in quale direzione, non lo sapremo mai: la storia non si fa con i ‘’se’’, e nemmeno la politica industriale. Sta di fatto che l’Italia ha perso per sempre la chimica e di politica industriale non si parla più.
Il silenzio e la rimozione sono caduti sulla vicenda Enimont. I protagonisti sono tutti morti, e ricostruirla – dal punto di vista economico e industriale, non solo come storiaccia o trama di un ipotetico complotto- è praticamente impossibile. Intervistato nel 1990 da Enzo Biagi, alla domanda ‘’come vorrebbe essere ricordato tra 100 anni” Gardini rispose: ‘’dottor Biagi, tra 100 anni nessuno mi ricorderà più’”. Non è cosi: di lui ci ricordiamo ancora tutti, a un quarto di secolo di distanza, e probabilmente per molti decenni ancora, così come del suo compagno di sventura e suicidio, Gabriele Cagliari. Dell’Enimont, invece, di quel magnifico sogno industriale che avrebbe potuto proiettare l’Italia verso un destino diverso, nessuno ha più memoria. E del resto, non è nemmeno più un caso unico: nell’ultimo decennio quasi tutte le nostre grandi industrie si sono estinte o, nel migliore dei casi, sono state vendute a gruppi di altri paesi. A noi restano le briciole, e forse, tra breve, nemmeno più quelle.
Nunzia Penelope