Il giorno successivo alla definizione dell’Accordo Ilva – firmato giovedì 6 settembre al ministero dello Sviluppo Economico dai sindacati, dai Commissari Straordinari della stessa Ilva e dall’azienda acquirente, AM InvestCo Italy – il ministro dello Sviluppo Economico, Di Maio, ha reso noto, sul sito del Mise, di aver rinunciato all’idea di annullare la gara vinta l’anno scorso dalla stessa AM InvestCo.
Pertanto, se, come è lecito attendersi, i dipendenti del gruppo Ilva approveranno l’accordo con il referendum che si terrà entro questa settimana, già a metà settembre i nuovi proprietari del Gruppo stesso, ovvero, in sostanza, ArcelorMittal, che è di gran lunga il maggior azionista di AM InvestCo, faranno ingresso negli stabilimenti produttivi di Taranto, Genova, Novi Ligure (Alessandria), Paderno Dugnano (Milano) e nelle altre sedi logistiche o amministrative.
Ora, come è noto, il giorno della firma, parlando ai cronisti dalla sua postazione preferita – ovvero dall’alto dei gradini che collegano il portone principale del Ministero dello Sviluppo Economico ai marciapiedi di via Veneto – il ministro Di Maio è tornato a scagliarsi, con particolare violenza verbale, contro l’operato del Governo precedente; così come aveva già fatto, del resto, nella conferenza stampa del 23 agosto, quella in cui aveva definito la gara internazionale vinta l’anno scorso da AM InvestCo come un “delitto perfetto”. Salvo a specificare, poi, che il colpevole di tale delitto non era l’impresa vincitrice, alla cui correttezza non poteva essere mossa nessun appunto, ma chi aveva organizzato una gara “fatta male e illegittima”. Ovvero, gli ultimi Governi a guida Pd e, in particolare, a quanto si poteva comprendere, il suo immediato predecessore, e cioè il ministro Carlo Calenda.
Quest’ultimo, peraltro, nella stessa giornata, ovvero nel pomeriggio del 6 settembre, lo ricambiava con tutt’altra moneta. E ciò per mezzo di un tweet in cui, dopo aver esclamato: “Una grande giornata per #Ilva, per l’industria italiana e per Taranto. Finalmente possono partire gli investimenti ambientali e industriali”, rivolgeva “complimenti non formali a @luigidimaio che ha saputo cambiare idea e finalmente imboccare la strada giusta”.
A questo punto, l’osservatore delle vicende industriali del nostro Paese rischia di non raccapezzarsi più. E si chiede: “Ma come stanno le cose”? E’ vero quel che dice Di Maio, e cioè che la gara, poi vinta da AM InvestCo Italy, era mal fatta e illegittima e che, quindi, lui e il Governo di cui è Vice Presidente hanno dovuto imboccare tutt’altra strada? O è vero ciò che dice Calenda, e cioè che Di Maio “ha saputo cambiare idea” e ha imboccato “la strada giusta”, ovvero quella già tracciata da Calenda? E ancora: è vero quel che dice Di Maio, e cioè che l’accordo raggiunto al Mise il 6 settembre alla sua presenza è fortemente migliorativo rispetto allo “Schema di accordo” reso pubblico da Calenda il 18 maggio scorso? E comunque, perché i sindacati hanno accettato di firmare quello di settembre mentre non avevano voluto sottoscrivere quello di maggio?
Per rispondere a queste domande, bisogna distinguere fra due aspetti della vicenda al termine della quale il gruppo Ilva in Amministrazione Straordinaria è stato venduto ad ArcelorMittal. Da un lato sta l’aspetto industriale, che porta con sé la problematica ambientale. Dall’altro c’è l’aspetto occupazionale, con le sue ricadute sindacali. Cominciamo dunque dall’aspetto industriale.
A monte di tutto c’è quel processo di privatizzazione della siderurgia italiana che si è sviluppato fra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90. Un processo che, visto in una prospettiva storica, a venticinque, trenta anni di distanza dai suoi inizi, appare, quanto meno, problematico. Questo processo, infatti, ha messo crudamente in luce una caratteristica peculiare, e certo non positiva, del capitalismo italiano. Caratteristica su cui, pochi anni fa, ha richiamato l’attenzione l’attuale Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, e che consiste nella sottocapitalizzazione delle grandi imprese private. In parole povere, quando fu avviato il processo di dismissione del sistema delle Partecipazioni statali nell’industria manifatturiera italiana, le imprese private che si fecero avanti per acquisire diversi stabilimenti siderurgici, posseduti in precedenza dalla finanziaria pubblica Finsider, hanno poi mostrato di non essere all’altezza del compito che si erano assunte.
Tra il 1992 e il 1995 il gruppo Lucchini assume il controllo delle Accierie di Piombino. Ma ben presto appare chiaro che il vecchio Luigi Lucchini ha fatto il passo più lungo della gamba. Già nel 2005 deve cedere la maggioranza della proprietà al gruppo russo Severstal. Si avvia così un percorso irto di difficoltà che vedrà prima l’ascesa di Severstal al 100% della proprietà dell’Acciaieria, e poi una serie di crisi successive che porteranno nel 2012 al Commissariamento dell’azienda, posta in Amministrazione Straordinaria, poi ancora alla sua vendita agli algerini di Cevital e, infine, quest’anno, alla sua acquisizione da parte del colosso indiano Jindal South West.
Più contrastata ancora, se possibile, la storia dell’Ilva, gruppo sotto il cui nome, datato 1905 e riesumato nel 1988, la famiglia Riva riunì lo stabilimento di Cornigliano, acquisito nello stesso 1988, e quello di Taranto, acquisito nel 1995. Qui il problema principale non fu rappresentato dalla distanza fra la disponibilità di capitale e le ambizioni di espansione sulla scena europea, quanto dalla distanza fra la capacità di conduzione di un grande gruppo e i problemi tecnologici connessi alle produzioni siderurgiche. Problemi tecnologici il cui aspetto critico è dato dall’impatto ambientale tipicamente correlato alla produzione di acciaio. A questo proposito, basterà qui ricordare che, a fine luglio 2012, il Gip di Taranto, Patrizia Todisco, dispose il sequestro senza facoltà d’uso dell’intera area a caldo dello stabilimento tarantino, nonché l’arresto, per reati ambientali, del vecchio Emilio Riva, per lunghi anni Presidente dell’Ilva, e del figlio Nicola, che gli era succeduto nel 2010.
Ed è da qui che inizia un’odissea fatta di sequestri, dissequestri, e provvedimenti legislativi ad hoc, volti a far sì che le attività produttive dello stabilimento tarantino potessero continuare, pur in presenza di gravi problemi ambientali. Ciò nella convinzione, comune a tutti i Governi a guida Pd che si sono succeduti tra il 2013 e il 2018, che il risanamento di una struttura industriale complessa come un grande impianto siderurgico è possibile solo se tale stabilimento rimane vivo e vegeto. E per confermare che questa teoria non è campata in aria, gli esperti dell’argomento hanno sempre citato il caso di Bagnoli (Napoli). Qui l’area un tempo occupata dallo stabilimento Italsider, definitivamente chiuso nel 1992, rappresenta infatti un caso emblematico di un’area un tempo destinata a un’intensa attività siderurgica e poi mai pienamente risanata dopo la “dismissione” di tale attività. E ciò anche, se non soprattutto, a causa del fatto che, con la chiusura dello stabilimento, è venuto meno il soggetto del possibile risanamento, cioè l’azienda che aveva causato l’inquinamento dell’area stessa.
A ciò va aggiunta un’altra decisiva convinzione che ha accomunato i tre Governi a guida Pd (Letta, Renzi e Gentiloni) che si sono succeduti dal 2013 al 2018. E cioè l’idea, di carattere strategico, che una chiusura definitiva del centro siderurgico di Taranto avrebbe arrecato un colpo durissimo, per non dire esiziale, al nostro sistema industriale. Un sistema prevalentemente manifatturiero di cui l’industria metalmeccanica, quella che ha continuamente fame di acciaio, costituisce, assieme, cuore e corpo portante.
Ora va detto che, in quei tre Governi, Carlo Calenda è stato uno dei protagonisti per ciò che riguarda le politiche industriali. Viceministro dello Sviluppo economico con delega al Commercio estero prima con Letta e poi con Renzi – tra il maggio 2013 e il marzo 2016 -, e poi, dopo due mesi passati come Rappresentante permanente dell’Italia pressola UE, ministro dello Sviluppo Economico dal maggio 2016 al giugno 2018.
Ebbene, pochi giorni dopo l’insediamento del Governo Letta, e cioè ai primi di giugno del 2013, l’Esecutivo decide il Commissariamento dell’Ilva. Nel gennaio del 2015, poi, l’Ilva Spa, in quanto impresa strategica di interesse nazionale, viene ammessa all’Amministrazione Straordinaria. A guidare la società e le sue principali controllate viene nominato un collegio di tre Commissari Straordinari: Corrado Carrubba, Piero Gnudi ed Enrico Laghi.
A questo punto della vicenda, il problema strategico, la cui soluzione viene affidata dal Governo a suddetti Commissari, è quello di individuare un’impresa che sia abbastanza grande da poter inglobare in sé l’intero gruppo Ilva. Ovvero un gruppo che è non solo, e di gran lunga, il primo gruppo siderurgico italiano, ma uno dei più rilevanti a livello europeo e che possiede, oltre agli stabilimenti di Cornigliano (Genova), Novi Ligure e Paderno Dugnano, e oltre a diverse società controllate, il centro siderurgico di Taranto, cioè il più grande stabilimento siderurgico dell’intera Europa.
Ma per organizzare una simile vendita nel rispetto delle regole vigenti nell’Unione europea, occorreva organizzare una gara internazionale che seguisse precise regole formali. Ed è questa, appunto, la gara che, nel giugno del 2017, è stata vinta da AM InvestCo, la cordata, di cui faceva parte anche il gruppo siderurgico italiano Marcegaglia e di cui il maggiore azionista è ArcelorMittal, ovvero quel colosso franco-indiano che può vantarsi di essere il maggior produttore di acciaio attivo sul pianeta Terra.
A questo punto della storia, il ministro Calenda e i Commissari Straordinari possono congratularsi con sé stessi. ArcelorMittal, infatti, non è solo abbastanza grande da poter assorbire, senza contraccolpi, l’intero gruppo Ilva. È anche abbastanza internazionalizzato da avere interesse, nell’ambito di uno scenario globale in continua e netta evoluzione, a rafforzare la propria posizione in Europa. Di più: è anche detentore di tecnologie avanzate che rendono credibile l’impegno a sviluppare un’attività produttiva che sia significativamente meno inquinante di quella portata avanti ai tempi dei Riva.
Sul versante sindacale, ci sono però due problemi. Il primo è quello dell’occupazione. La società Ilva in Amministrazione Straordinaria ha ereditato, e a giugno 2017 continua a occupare, qualcosa come 14.000 addetti. ArcelorMittal pensa di assumerne molti meno: 8.500. Il ministro Calenda affida ai Commissari il compito di trattare condizioni migliori. ArcelorMittal alza il livello del suo progetto occupazionale: accetta di assumere 10.000 dipendenti Ilva.
Il secondo è quello della cosiddetta novazione contrattuale. In pratica, viene definito un meccanismo per cui tutti i singoli lavoratori in forza all’Ilva, e destinati a diventare dipendenti di AM investCo, dovranno dare le dimissioni dall’Ilva e, contestualmente, verranno riassunti dalla nuova società.
Il che porta con sé il problema del mantenimento dei diritti acquisiti che, altrimenti, i dipendenti ex Ilva rischierebbero di perdere con tale meccanismo. Ora tale questione è importante non solo per l’inquadramento professionale e per gli scatti di anzianità da loro acquisiti, la cui somma determina il salario derivante dal contratto nazionale, ma anche per il salario derivante dagli accordi aziendali e, ancor più, sul piano normativo. Come è infatti ampiamente noto, uno dei decreti legislativi attuativi del Jobs Act dispone che la tutela dai licenziamenti non determinati da giusta causa o da giustificato motivo – tutela prevista dal famoso art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 – rimanga in vigore per tutti i lavoratori assunti prima del varo di tale decreto (2015). In pratica, si tratta di assicurare il mantenimento di tale tutela anche per gli ex dipendenti Ilva che, tecnicamente, dopo il loro ingresso in AM InvestCo, andrebbero considerati come nuovi assunti.
Ora, per chi abbia un minimo di dimestichezza con le vicende sindacali, sarà facile capire che problemi di questa natura e di questa portata non possono essere trascurati dalle organizzazioni dei lavoratori. Il loro scopo, infatti, non poteva essere solo quello di dare un futuro all’Ilva, con tutto ciò che questo significa, ma anche quello di conquistare tale futuro con il consenso dei lavoratori da loro rappresentati.
Torniamo dunque con la mente a ciò che è successo nel corso dell’ultimo anno rispetto ai vari passaggi di questa vicenda. Tra giugno e luglio 2017 AM InvestCo vince la gara per l’aggiudicazione dell’Ilva e poi, dopo una prima trattativa con i Commissari Straordinari, stipula un contratto di acquisto in cui si impegna ad assumere ex novo 10.000 ex dipendenti dell’Ilva stessa. Si impegna inoltre a rispettare determinati vincoli ambientali che saranno poi recepiti nel DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) datato 29 settembre 2017.
La trattativa con i sindacati, che si sviluppa essenzialmente a partire dal mese di settembre, ha dunque davanti a sé dei problemi precisi. Primo: quale destino offrire ai circa 4.000 lavoratori che, a quella data, rischiano di essere considerati in esubero? Secondo: cosa fare affinché i lavoratori riassunti in AM InvestCo mantengano i diritti acquisiti in Ilva? Terzo: è possibile migliorare gli impegni ambientali già accettati dall’azienda acquirente?
Ebbene, questa trattativa si è prolungata troppo a lungo, da settembre a febbraio. Le elezioni politiche del 4 marzo, come è noto, hanno poi visto una netta sconfitta del Pd, asse portante della maggioranza di Governo. L’Esecutivo guidato da Paolo Gentiloni è rimasto in carica fino a fine maggio, ma è evidente che le capacità negoziali del Ministro Calenda, tra marzo e maggio 2018, sono risultate significativamente indebolite.
A partire dal 1° giugno, nella vicenda Ilva è dunque entrato in scena Luigi Di Maio nella sua triplice veste di Vicepresidente del Consiglio dei ministri, ministro dello Sviluppo Economico e ministro del Lavoro. Tre cariche istituzionali cui bisogna aggiungere, cosa non indifferente, quella di capo politico del MoVimento 5 Stelle, la forza affermatasi come maggioritaria nelle urne del 4 marzo.
Ebbene, come si è mosso Di Maio, tra il 1° giugno e il 6 settembre, sulla scena dell’Ilva? Crediamo di poter dire che, in sostanza, si è mosso in piena continuità con il suo predecessore al Mise, Carlo Calenda.
Ciò è vero, soprattutto, per ciò che riguarda gli aspetti industriali della vicenda. Come abbiamo detto all’inizio, se i lavoratori approveranno l’accordo del 6 settembre, a metà mese ArcelorMittal diventerà pienamente proprietario del gruppo Ilva. Ed è lecito attendersi che, da quel momento, potrà assicurare al gruppo stesso un nuovo futuro. Così come volevano Calenda e i Commissari straordinari. Cui, a parer nostro, va il merito dell’operazione.
Ma va detto che, anche sotto il profilo ambientale, le differenze fra quanto ottenuto da Calenda e quanto ottenuto da Di Maio sono abbastanza modeste. In sostanza, i tempi entro cui saranno completati i vari passaggi della copertura dei parchi minerali interni allo stabilimento di Taranto, parchi che – come è noto – costituiscono una delle fonti principali dell’inquinamento atmosferico dell’area, verranno accelerati di alcuni mesi. Inoltre, ArcelorMittal si è impegnata a far sì che, quando la produzione di acciaio dovesse superare, come previsto, i 6 milioni di tonnellate annue, salendo verso gli 8 milioni, le emissioni nocive non cresceranno. Due buone notizie, indubbiamente. Ma va anche detto che lo schema di fondo resta immutato.
Ma allora, si dirà, perché quelle clamorose conferenze stampa in cui Di Maio ha definito la gara internazionale vinta da AM InvestCo, nientemeno, che come un “delitto perfetto”? Perché quella reiterata richiesta di pareri sulla legittimità della gara rivolti prima a all’Autorità nazionale anti corruzione, poi all’Avvocatura dello Stato e, infine, al Ministero dell’Ambiente?
A parer nostro, il punto è questo. Il Di Maio ministro dello Sviluppo Economico, e forse anche, o ancor più, il Di Maio vicepresidente del Consiglio, ha capito (da solo o perché qualcuno glielo ha spiegato) che era necessario chiudere positivamente l’accordo con ArcelorMittal. Ogni altra conclusione della vicenda avrebbe potenzialmente innescato un disastro politico. E quindi avanti, fino al’accordo finale.
Ma il Di Maio capo politico del MoVimento 5 Stelle aveva appena vinto le elezioni posizionandosi su una linea a dir poco ambigua, per non dire esplicitamente anti-industrialista, più che anti-capitalista.
Forse appoggiandosi sulle risorse strategiche offerte generosamente dalla Casaleggio Associati, Di Maio ha quindi messo in piedi un’operazione totalmente mediatica, fatta di comunicati notturni, proclami, dichiarazioni e conferenze stampa volte a un unico scopo: scavare un fossato, ancorché puramente immaginario, fra sé e il suo predecessore, Calenda. Inventando la storia di una gara internazionale assurdamente dipinta come illegittima. E creando l’immagine di una discontinuità sostanzialmente inesistente per celare la realtà di una effettiva continuità di governo della vicenda Ilva.
E qui va osservato, però, che Di Maio è stato effettivamente abile nello sfruttare il punto più debole del grande lavoro svolto dal ministro Calenda: quello delle prospettive occupazionali.
Essendosi fatto l’idea che fosse impossibile far accettare ad ArcelorMittal qualsiasi impegno a superare la soglia dei 10.000 addetti da assumere in AM InvestCo, Calenda aveva immaginato che 1.500 lavoratori potessero essere assunti da una newco, una cosiddetta azienda “per Taranto” formata, a partire da Invitalia, sul modello di quella già fondata, a suo tempo, “per Cornigliano”. Ovvero un’impresa volta a portare avanti non la produzione di acciaio, ma le varie opere di risanamento ambientale richieste dallo stabilimento tarantino, a partire dalla citata opera di copertura dei parchi minerali. Il che avrebbe diminuito significativamente il numero dei potenziali esuberi. Mentre per i duemila o poco più dipendenti non rioccupati, venivano previsti esodi incentivati (a parte i pensionamenti connessi al crescere dell’anzianità anagrafica di alcune decine di lavoratori).
Ebbene, nel corso dell’ultima parte della trattativa è apparso chiaro che la soluzione basata sul possibile ruolo di Invitalia non ha mai convinto i sindacati. I quali, invece, hanno preferito di gran lunga la soluzione offerta nel settembre 2018 da AM InvestCo, sotto l’evidente pressione di Di Maio. Soluzione basata su tre punti. Primo, il numero dei lavoratori destinati alla riassunzione in Am InvestCo sale da 10.000 a 10.700. Secondo, gli esodi possibili, perchè incentivati con la duplice garanzia del Governo e di ArcelorMittal, salgono da 2.000 a 2.500. (E siamo già a un totale, certo teorico, di 13.200 lavoratori con un destino preciso su un totale che, adesso, si aggira sui 13.500 lavoratori). Terzo, AM InvestCo si impegna a fare una proposta di assunzione a tutti i lavoratori che in date certe, fra il 2023 e il 2025, non avessero trovato un’altra soluzione occupazionale, né fossero ancora andati in pensione.
Questo è il punto che ha fatto la differenza. Mentre anche per ciò che riguarda i problemi connessi alla cosiddetta novazione contrattuale, va detto che fra la soluzione Calenda e la soluzione Di Maio non vi sono differenze significative. Di Maio, in particolare, ha proclamato che, con l’accordo del 6 settembre, il Jobs Act non è entrato in fabbrica. Ma va detto che, con ogni probabilità, anche con lo schema proposto da Calenda i vantaggi connessi all’anzianità pregressa dei lavoratori riassunti da AM InvestCo sarebbero stati tutelati.
Ma, come si sa, la storia, e forse anche la cronaca, non si fa con i se. A Calenda va il merito di aver impostato una soluzione industrialmente valida per l’annosa questione dell’Ilva. Ai sindacati quello di aver resistito per spuntare condizioni capaci di dare maggiore serenità ai lavoratori. A Di Maio quello di aver premuto su ArcelorMittal per ottenere tali condizioni. E ad ArcelorMittal quello di aver pazientato fino alla soluzione della trattativa.
@Fernando_Liuzzi