I dati sul lavoro e l’economia del Lazio sono un vero e proprio bollettino di guerra. Se non si prenderanno provvedimenti a breve, nella regione si rischia di perdere 5 mila posti di lavoro. Secondo l’Osservatorio della Cgil in due anni si è verificata una contrazione di oltre 206mila contratti. Ne abbiamo parlato con Michele Azzola, segretario generale della Cgil di Roma e Lazio.
Azzola, la situazione è così tragica, e per quali ragioni?
Sono due anni che denunciamo questa situazione. Dopo Mafia Capitale c’è stato un tracollo a livello industriale e ovviamente anche per quanto riguarda le aziende pubbliche. Le aziende lasciano Roma perché sono assenti i servizi minimi essenziali. Nessuno vuole più investire sul territorio. Abbiamo denunciato sia lo stato di crisi, sia le conseguenze che ci sono a livello occupazionale. Si è verificato, ed è tutt’ora in crescita, un crollo dei contratti di lavoro a tempo indeterminato e un aumento dei contratti precari per lo più legati al turismo. Stiamo chiedendo da due anni di aprire su Roma e Lazio un tavolo interistituzionale con Governo Comune e Regione per ritrovare il bandolo della matassa ma, per ora, non abbiamo risposte. Inoltre, non si può pensare alle aziende senza pensare al ciclo dei rifiuti e al sistema dei trasporti. Senza le infrastrutture, senza un vero e proprio piano Marshall su Roma non ci può essere via d’uscita. A Roma, lungo via Tiburtina, abbiamo un tecnopolo di eccellenza che potrebbe attrarre investimenti da tutto il mondo: ma le aziende ci chiedono come possono portare i loro clienti in un luogo degradato come quello. Il Comune e la Regione devono prendere di petto la questione e decidere che ruolo devono avere questa città e questa Regione.
Lo sviluppo urbanistico di Roma è sempre stato legato a quello della cementificazione selvaggia su un territorio vastissimo dove le varie amministrazioni non sono riuscite ad arrivare con le risorse adeguate a fornire le infrastrutture necessarie. Non è una città che si è sviluppata intorno alle industrie e ai servizi alle industrie. Come si fa ad invertire la rotta?
Abbiamo proposto di mettere in piedi un’unità di crisi rispetto alla quale c’è stata un’apertura ma niente di concreto. L’obiettivo era quello di affrontare due problemi: quello legato allo sviluppo della città che con i continui tagli alla spesa pubblica ha ridotto ancora di più le risorse destinate alle infrastrutture e ai servizi necessari. I tagli infatti sfavoriscono le aziende e ricadono oltretutto sulla filiera degli appalti. E quello legato alla nomea che Roma e tutto il Lazio ha acquisito con Mafia Capitale. Roma è per tutti una città di corrotti e nessuno vuole avere a che fare con questa realtà
Sta dicendo che l’indagine della magistratura ha avuto effetti negativi per la crescita locale?
No, assolutamente. L’indagine ha dimostrato ampiamente che il danno per la nostra città era appunto il sistema Mafia Capitale. Per questo ci stiamo costituendo come parte civile di (in) uno dei tronconi del processo che partirà il 19 settembre. Pensiamo di essere parte in causa perché il sistema Mafia Capitale, e quello che ha fatto emergere l’indagine, ha avuto una ricaduta negativa sull’intero territorio e anche sui lavoratori che stanno pagando le conseguenze di questo sistema di potere.
Secondo lei il problema della fuga delle aziende, della contrazione dei contratti a tempo indeterminato e dei licenziamenti, è un problema tutto territoriale?
Roma e Lazio sono la punta di un decadimento che riguarda tutto il paese. Le politiche economiche e del lavoro degli ultimi vent’anni hanno deciso di portare l’Italia a essere più competitiva a livello internazionale flessibilizzando e abbassando il costo del lavoro. La competizione premia l’azienda più spregiudicata che riesce a comprimere i salari. Noi siamo un paese, infatti, con un prodotto a basso valore aggiunto. Inoltre, un altro fenomeno che si è verificato in Italia, forse peggiore del primo, è stato attaccare a picconate il lavoro del pubblico impiego. La propaganda sul pubblico come bacino di fannulloni, scansafatiche, cartellini non timbrati, ha portato un disinvestimento nel pubblico impiego senza precedenti. Il pubblico non riesce più a investire neanche nella ricerca. È inutile che parlano (che si parli) del numero chiuso nella specializzazione (laurea) in medicina, se tra un po’ non avremo più medici, non avremo più strutture. Le università, anche quelle romane, non sono messe a valore. Si è prodotto un depauperamento delle competenze che ha creato un danno all’intero sviluppo di questo territorio e di tutto il paese.
Lo scorso autunno Comune e Governo si erano incontrati proprio in un tavolo tecnico per lo sviluppo di Roma e Lazio. Adesso il Governo è cambiato. A che punto siamo?
Ci siamo di nuovo impantanati. Quel tavolo, tra il sindaco Raggi e il ministro Calenda, nacque proprio su iniziativa dei sindacati. Il tavolo, però, era stato convocato durante la campagna elettorale e in Italia come è noto non fanno politica solo i partiti ma anche le istituzioni. Noi abbiamo scritto una lettera al sindaco Raggi e scriveremo a Zingaretti per proporre ancora una volta un tavolo che metta insieme tutti. Lo stato di Roma è tale che non riusciremo a venirne fuori se non si faranno investimenti su strade, rifiuti, trasporti, e tutte le infrastrutture necessarie. Servono finanziarie del governo per risanare Roma. A Roma due scuole su dieci non sono a norma. Di questo stiamo parlando.
Ci sono le risorse per intervenire?
Si, ma bisogna volerlo. “Potere è volere” dice Di Maio. “Potere è volere” se si decide che si vuole rilanciare la Capitale d’Italia. In questa campagna elettorale si è parlato molto di sud e di nord. Qua si tratta però di capire che Roma è la nostra interfaccia verso il mondo. Centinaia di turisti, uomini d’affari, politici, attraversano questo territorio: non possiamo affrontare questi problemi da soli. La città di Roma non si può organizzare e risollevare da sola.
Abbiamo analizzato i nodi problematici territoriali e nazionali, ma non crede che ci sia, anche, una responsabilità europea? A livello produttivo stiamo diventando il meridione d’Europa.
A me non piace chi pensa che i nostri problemi siano colpa dell’Europa. È un alibi. Ci sono delle responsabilità politiche immense che riguardano il nostro paese. Negli ultimi dieci anni abbiamo svenduto il nostro patrimonio industriale: Telecom, Eni e potrei nominare tante altre aziende. Abbiamo deciso di farlo noi, non si può incolpare nessuno. Gli altri paesi non hanno privatizzato niente, è stata una scelta miope della politica italiana. Sempre noi abbiamo scelto di abbassare il costo del lavoro pensando che questo avrebbe voluto dire maggiori investimenti: un altro errore. Le aziende hanno pensato che fosse meglio spremere i lavoratori piuttosto che investire in sviluppo, ricerca e innovazione. Se l’Europa ha una responsabilità è di tipo politico: per esempio, sull’immigrazione ha mostrato di non essere capace di mettersi d’accordo per una politica chiara unitaria.
Cgil, Cisl e Uil hanno scritto a Di Maio chiedendo un incontro urgente su un confronto sistemico riguardo le emergenze che gravano sul mondo del lavoro e il ripristino degli ammortizzatori sociali. Cosa ne pensa?
Io spero che Di Maio in discontinuità con i suoi predecessori – che hanno espresso l’arroganza di una classe politica che pensava di fare a meno dei corpi intermedi – ci ascolti. Ascolti chi sta veramente in mezzo ai lavoratori. Il Jobs act ha creato danni. Ha eliminato le politiche attive e gli ammortizzatori senza i quali migliaia di persone si ritroveranno senza alcuna forma di reddito. La gente è disperata. Io dico che bisogna ragionare su questi temi e soprattutto pensare le riforme non esclusivamente sul paese che vorremmo essere ma partendo dal paese che siamo e oggi la situazione è questa. Da qui bisogna ripartire.
Alessia Pontoriero