Negli ultimi anni, vari fattori hanno contribuito a mettere in discussione il sistema di welfare italiano.
I vincoli finanziari hanno fatto prevalere interventi di breve periodo, mirati a risparmi di spesa immediati e slegati da un progetto di riordino complessivo. Interventi volti via via a redistribuire la ricchezza del Paese senza preoccuparsi più di tanto di farla crescere e tagli lineari che hanno peggiorato i servizi pubblici invece di ridurre gli sprechi. Come risultato si è avuta una penalizzazione del benessere collettivo, accentuata dalla contrazione del ceto medio, quel 12% della popolazione che guadagna sopra i 35mila l’anno e che sostiene il 57% dell’intera Irpef, dunque anche il welfare italiano.
Fare attenzione alle priorità
Oggi l’Italia deve affrontare, in modo concreto e sostenibile, le sfide poste dall’invecchiamento della popolazione, dalla globalizzazione economica e dall’innovazione dei processi produttivi. Per questo vorremmo si comprendesse quanto il discorso sulle pensioni sia residuale rispetto alle vere esigenze del Paese.
Il cantiere della previdenza è in piena attività: si vuol cancellare la legge Fornero, introdurre la quota 100, tornare alle pensioni di anzianità. Forse non si sta adeguatamente considerando che, per avere buone pensioni occorre avere buone retribuzioni e bisogna mettersi in linea con gli altri paesi avanzati sugli altri ambiti fondamentali del welfare: servono servizi adeguati a soddisfare i bisogni emergenti; politiche del lavoro efficaci nel contrastare disoccupazione ed esclusione sociale; un sistema di istruzione capace nel garantire l’accesso alle nuove competenze; una sanità basata sull’appropriatezza terapeutica e l’efficienza gestionale.
Solo quando tutti questi strumenti funzioneranno e avranno potuto favorire una ripresa solida dell’economia si potrà riaprire la discussione sul tema previdenziale. Il problema, oggi, non è mandare in pensione gli anziani ma innalzare il tasso di occupazione e il reddito dei lavoratori.
L’economia italiana è caratterizzata da una fase prolungata di bassa crescita della produttività e questo ha con conseguenze rilevanti sullo sviluppo, sia nel presente sia in prospettiva. Come ha riconosciuto lo stesso ministro dell’Economia, Giovanni Tria, dobbiamo innescare una crescita forte e sostenibile attraverso riforme strutturali da implementare in modo graduale
Welfare, integrare per migliorarlo
Il modificarsi dei tradizionali equilibri tra le generazioni pone con insistenza domande nuove al sistema di welfare, che deve quindi ristrutturarsi profondamente. Il progressivo invecchiamento della popolazione determina un radicale cambiamento nella domanda di protezione sociale: crescono i bisogni assistenziali, emergono nuove forme di esclusione, si rafforza la necessità di creare strumenti sempre più personalizzati e flessibili.
Vanno in questa direzione le diverse forme di sussidiarietà di origine contrattuale che crediamo debbano essere incentivate: welfare aziendale, previdenza e assistenza sanitaria integrative, assicurazioni long term care, politiche attive per il ricollocamento, accordi sulla formazione continua. Sono questi gli elementi su cui spingere per alleggerire gli oneri che gravano sul sistema pubblico e renderlo più efficace.
Il perdurare della crisi economica e le croniche carenze del nostro welfare negli ultimi anni, hanno acutizzato situazioni di sofferenza sociale e creato nuove emergenze, specialmente in alcuni territori e ambiti produttivi, che bisogna affrontare in maniera solidaristica e allo stesso tempo selettiva.
Per farlo servono politiche del lavoro e politiche attive in grado di incidere in profondità sul funzionamento del mercato del lavoro e ridurre al minimo i periodi in cui la popolazione attiva è priva di reddito.
Occorre predisporre strumenti e processi per adeguare l’incontro tra offerta e domanda di professionalità, facilitare l’accesso all’occupazione e fluidificare la circolazione del capitale umano.
Investire sulla formazione
L’incidenza della spesa per l’istruzione sul totale della spesa pubblica italiana è in diminuzione. Dobbiamo invertire questa tendenza, perché il fallimento dei sistemi formativi genera effetti negativi a cascata sui sistemi sociali ed economici: riduce le opportunità lavorative, limita la possibilità di trovare lavori ben retribuiti, frena l’imprenditoria ad alta marginalità produttiva, ostacola l’innovazione, riduce la mobilità sociale e territoriale. Se ci fosse meno dispersione scolastica, avremmo meno marginalità sociali. Se si premiasse di più il merito, se avessimo un ascensore sociale funzionante e se diventassimo attrattivi, avremmo più equità, meno cervelli in fuga e spopolamento del sud.
Per rigenerarsi a livello sistemico l’Italia deve dunque investire sulla qualità dell’istruzione, a ogni livello, intervenendo sulla transizione scuola-lavoro-formazione. Oltre a rinnovare gli ammortizzatori sociali, rendere sostenibile la sanità, rilanciare le politiche del lavoro, una politica lungimirante per il welfare richiede anche un intervento importante sull’istruzione. Naturalmente occorre uno spostamento massiccio di risorse, nell’ambito di un programma dettagliato, fondato su azioni precise, integrate, misurabili, da applicare gradualmente, con fermezza e senza dogmi ideologici.
Solo all’interno di un piano del genere si potrà ragionare di interventi sulle pensioni e magari tornare a promettere condizioni migliorative senza il timore di intaccare le prospettive future di chi oggi non può godere dei benefici promessi.
Interrogativi aperti
Per portare avanti le trasformazioni auspicate e gli investimenti conseguenti occorre, a monte, liberare le risorse dei lavoratori e riflettere su alcuni interrogativi. Domandarsi se vogliamo foraggiare un sistema previdenziale estremamente costoso dando l’illusione che possa generare una pensione utile a mantenere il tenore di vita avuto quando si è in attività. Chiedersi se è giusto che le pensioni più elevate generate da tale sistema vengono definite “d’oro” e di conseguenza tagliate. Capire cosa fare per chi ha pensioni insufficienti, a fronte di retribuzioni basse, mancata contribuzione o evasione contributiva. Offrire una soluzione a chi perde il potere d’acquisto di una pensione che, pur essendo adeguata, non viene perequata.
Quali sono i margini entro cui fiscalità generale può intervenire per garantire la giustizia sociale?
Anche elevare le pensioni minime alla soglia di 780 euro mensili rischia di scoraggiare i lavoratori che, mediamente, percepiscono poco più di 29mila euro lordi annui (in Germania 45mila…) e che, dopo oltre 40 anni di attività, ricevono un assegno pensionistico poco più alto di chi prende una pensione o un eventuale reddito di cittadinanza, magari senza aver mai potuto lavorare.
Forse bisognerebbe introdurre, in prospettiva, un sistema di flat rate sul modello di quelli adottati nei Paesi nordeuropei, basato su due pilastri: un primo pilastro pubblico con finalità redistributive finanziato con una aliquota contributiva moderata e un secondo pilastro, gestito dai fondi pensione, anche questo obbligatorio ma di entità variabile, con finalità integrative. Sempre che non si voglia continuare a ragionare sulla previdenza pubblica come un investimento finanziario, con il rischio di strumentalizzazioni, sprechi e senza offrire adeguate garanzie.
Se vogliamo cambiare passo occorre destinare risorse al mercato del lavoro, liberare oneri alle retribuzioni, ricostruire un welfare capace di colmare le evidenti criticità strutturali del sistema. Solo dopo potremo destinare eventuale ulteriori risorse al miglioramento del sistema pensionistico.
Se non lo faremo l’Italia continuerà a fare come quel padre di famiglia che, invece di cercare maggiori entrate, continua a indebitarsi e a distribuire e sperperare una ricchezza persa da tempo, fino al momento in cui non avrà più speranza di sanare i debiti e i creditori busseranno alla porta per portare via tutto, ma proprio tutto.