Noi oppositori del governo giallo-verde potremmo toglierci almeno una soddisfazione e compiere un gesto di onestà intellettuale: smettiamo di chiamare sfascisti i nostri implacabili nemici, facendo cadere la pudica ‘’s’’ che ci cautela dalle querele. Magari, per maggiore sicurezza, sostituiamola con il prefisso ‘’neo’’ usato, impunemente, per tanti decenni con il Msi. Gli ultimi giorni hanno consegnato a un’opinione pubblica che persevera nel suo stato di eccitazione sovranpopulista spiacevoli episodi – di cui sono stati protagonisti alcuni tetragoni dell’attuale maggioranza – che destano parecchie preoccupazioni (magari non stonerebbe persino un po’ di sana indignazione).
Cominciamo dall’audio che Rocco Casalino, il badante di Padre Giuseppe Conte di Petralcina (in procinto di ricevere il ‘’segno’’ delle stimmate), ha messo in circolazione la settimana scorsa. Casalino è troppo esperto per cadere in una trappola dei giornalisti: era sua intenzione fare in modo che le minacce ai dirigenti-chiave del Mef circolassero e giungessero a destinazione e che gli fossero attribuite, anche a rischio di asseverare l’idea che Giovanni Tria sia prigioniero della confraternita dei “pezzi di m…a” (cit.) che gli stanno attorno. Del resto, i toni consueti sono questi.
Nei giorni precedenti Luigi Di Maio si era rivolto a Tria con l’intimazione di un rapinatore che, a mano armata (‘’o la borsa o la vita!’’), chiede dieci miliardi al cassiere di una banca. Da persone di mondo, non ci scandalizziamo se dai palazzi del potere giungono alle redazioni dei giornali ‘’suggerimenti’’ (che poi sono vere e proprie direttive al pari delle veline diffuse dalla Agenzia Stefàni ai quotidiani, durante il ventennio) che servono a mandare dei segnali, magari soltanto in via ufficiosa (ma non è il nostro caso). Ci ha colpito di più la faccia di tolla dei maggiorenti pentastellati che hanno difeso Casalino e criticato di scarsa deontologia professionale (lo ha fatto anche Fico) i giornalisti che hanno reso noto il contenuto della comunicazione (come del resto gradiva lo stesso Casalino). In un Paese dove il neoministro della Giustizia cestina – in nome del diritto alla gogna pubblica – un travagliato provvedimento del suo predecessore a correzione dell’abuso delle intercettazioni telefoniche, emerge ancora una volta che gli uomini del nuovo potere, per sé stessi, non rispettano neppure le regole che vorrebbero imporre agli altri (Casalino, per altro, non era stato intercettato, ma aveva diffuso lui stesso un file audio).
Ancora una volta l’entourage del governo agisce sopra le righe. Le norme ci sarebbero, a voler essere corretti. Per certi ruoli apicali nella pubblica amministrazione è previsto l’uso dello spoil system che gli esecutivi, dal momento della loro entrata in carica, possono esercitare entro tempi e con procedure definite. Una volta però sostituite le persone – il che non è neppure avvenuto – queste devono ricoprire con dignità e autonomia il ruolo che è stato loro affidato, nel rispetto delle leggi e non nell’obbedienza agli ordini impartiti dai ministri. Forse sarebbe il caso che del fatto si occupasse anche la solerte Procura di Roma ai sensi dell’articolo 336 del codice penale, il quale recita inequivocabilmente: ‘’Chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell’ufficio o del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni’’. Si vede che alcuni sono più uguali degli altri e che forse, anche nei confronti delle toghe, si ottengono dei risultati, se si battono i pugni sul tavolo (come Salvini nel caso della nave militare Diciotti).
Pare che l’Ordine dei giornalisti della Lombardia, a cui Casalino è iscritto, abbia aperto un’inchiesta, ma ormai – nell’ordinamento populista – il consenso popolare trasforma chi lo detiene in un unto del Signore. ‘’È per mio ordine che il latore della presente lettera ha fatto quel che ha fatto’’: questo, secondo Alessandro Dumas, era il lasciapassare rilasciato dal Cardinale Richelieu, il cui ruolo è oggi svolto dal Guatemala da un altro Alessandro detto Dibba. Anche Silvio Berlusconi trescava con queste teorie, ma veniva solennemente redarguito dai tanti Soloni che ora tacciono o si voltano dall’altra parte. Del resto, l’opposizione non è più neppure in grado di scimmiottare un Aventino di seconda mano: nel Pd in tanti pensano che, al di là dei toni, la nuova maggioranza abbia ragione; quanto all’ex Cav si sente minacciato sul piano delle concessioni televisive, come non gli capitava da decenni; da quando, cioè, Walter Veltroni volle organizzare e perdere il referendum del ‘’non si interrompe una emozione’’.
Ma se eravamo ancora scandalizzati per la bravata di Rocco Casalino, il suo capo Giggino Di Maio ci ha lasciati di stucco. Addolorati più che indignati. Perché l’Italia si meriterebbe di meglio. All’Ilva di Cornigliano il ministro-ragazzino ha dichiarato: “Sia dannato il giorno in cui venne fatto il Jobs act. Chi lo ha fatto non deve essere chiamato statista ma assassino politico”. È più o meno il medesimo linguaggio che le Brigate Rosse usavano per la legge Biagi e per il mio amico Marco. Dubitiamo che Di Maio conosca la materia e sia conscio di ciò che dice. Il fatto ancor più grave però è un altro. Se quelle parole o’ ministro le avesse dette davanti ai lavoratori, essi lo avrebbero sommerso di applausi. Sta tutta qui la spiegazione della nostra disfatta.