È troppo alto un disavanzo pubblico pari al 2,4 per cento del Pil? In assoluto, no. Più o meno, è il livello a cui ci siamo assestati in questi anni. Fra il 2013 e il 2016, i diversi governi hanno sempre fissato, per l’anno successivo, un obiettivo di disavanzo all’1,8 per cento e hanno regolarmente chiuso i conti fra il 2,5 e il 3 per cento. Il punto, però, è che se l’abitudine italiana è di fissare un deficit e di sforarlo quasi al doppio, è legittimo temere che un disavanzo al 2,4 per cento si trasformi in un buco molto più largo, del 4 per cento e oltre. Timori e sospetti che spingono gli investitori ad abbandonare i titoli italiani. Tanto più se il governo in carica fa capire a tutta voce che l’ortodossia finanziaria è l’ultimo dei suoi problemi. E lo dimostra, carte in mano, rifiutando la scappatoia di un consenso, anche solo di facciata, alle regole della Ue che prevedono almeno l’intenzione di ridurre il disavanzo.
E allora perché Di Maio e, soprattutto, Salvini hanno deciso di lanciare apertamente questa doppia sfida, ai mercati e a Bruxelles? La risposta più semplice è che ha fatto premio su tutto la scelta di soddisfare, costi quel che costi, le promesse elettorali su pensioni e sussidi: anche se è una scommessa assai rischiosa, che potrebbe stringere il paese nella tenaglia dei mercati, delle agenzie di rating e della Ue. A meno che, visto dai vertici di Lega e 5Stelle, questo rischio non appaia assai minore – anzi, quasi un’occasione – di quanto sembri a molti osservatori esterni. Proviamo a tracciare degli scenari.
I prossimi mesi potrebbero scatenare una grave crisi sui mercati che spingerebbe il paese sull’orlo del default e dell’uscita dall’euro. Be’, ma non era il famoso piano B di Savona? Il governo potrebbe scaricare la colpa sugli attacchi di speculatori e burocrati comunitari contro la “Manovra del Popolo” e prepararsi a sciogliere ogni vincolo. Proprio Savona, ora ministro per gli Affari europei, parla di una “guerra che è appena iniziata”. L’ex braccio destro di Guido Carli non pensa che si debba necessariamente finire fuori dall’euro, ma pensa che la crisi possa essere utilizzata per ripensare l’impianto della costruzione europea.
È nell’arroganza intellettuale del personaggio non rendersi, forse, conto che i suoi obiettivi non coincidono affatto, anzi, sono opposti, rispetto a quello dei politici come Salvini. Le critiche di Savona alla Ue sono quelle mosse – dai keynesiani e, in genere, dalla sinistra – all’Europa dell’austerità alla tedesca, affermatasi in questi anni. In fondo al pensiero di Savona c’è più Europa: una costruzione più federale, con una maggiore condivisione di oneri e rischi, una banca centrale che difende non solo dall’inflazione, ma anche dalla disoccupazione e dalle tempeste valutarie. Niente a che vedere con l’Europa ridisegnata dai sovranisti alla Salvini.
Una divergenza, comunque, che non preoccupa affatto il capo della Lega, il cui sguardo è concentrato molto più vicino. Nella sua testa, dunque, il piano B è una subordinata, che solo una catastrofe sui mercati renderebbe attuale. Salvini guarda a Bruxelles: il braccio di ferro, futuro e inevitabile, con Moscovici e Juncker gli appare del tutto irrilevante. Perché l’attuale Commissione è, come è stato detto, “un morto che cammina” e, con essa, anche tutto l’impianto franco-tedesco dell’Europa attuale. Quindi, la Commissione faccia pure, se ha il coraggio, fuoco e fiamme, apra procedure d’infrazione, multi l’Italia. A maggio, vinte le elezioni e conquistata Bruxelles, si ricomincia da zero.
In questo disegno, paradossalmente, la divaricazione fra i diversi sovranismi europei, che esplode in contraddizione sui temi dell’immigrazione, torna, invece, a fagiolo. Perché l’immagine degli italiani con il mandolino che, secondo la narrazione vincente al Nord, hanno finora svernato su una panchina al sole, grazie ai soldi che gli passa Draghi, tosando gli interessi sui conti in banca degli onesti correntisti tedeschi e olandesi e, ora, continueranno a farlo moltiplicando il disavanzo, rinfocola il rancore contro l’Europa – quella di Merkel e Macron – che glielo permette. Porta, dunque, acqua e voti al mulino degli antieuropei. Quei voti battono un’altra bandiera, ma servono a Salvini per lo scontro decisivo di maggio.
Maurizio Ricci