Così conclude un suo articolo Umberto Romagnoli (14.09.2018 su Eguaglianza e Liberta):
” In seguito alla radicale trasformazione del quadro politico, si è aperta una finestra di opportunità per riproporre in maniera finalmente credibile la prospettiva dell’unità sindacale. Approfittarne si deve, prima che il vento di destra che soffia anche nel nostro paese la richiuda per sempre, spostando al livello aziendale il baricentro dell’azione sindacale e dunque travolgendo i principi-base della confederalità che costituì l’atout vincente e salvifico del sindacalismo storico. Il superamento di un anacronismo che ormai alimenta soltanto mediocri patriottismi d’organizzazione che fanno di ciascun sindacato un’agenzia di erogazione di servizi di vario genere a beneficio più di utenti-clienti che di rappresentati non passerebbe certo inosservato. Tutt’altro consentirebbe la formazione dell’interlocutore giusto di una sinistra dispersa e per ciò stesso ne favorirebbe la ricomposizione.”
L’appello non sarà ascoltato per tante ragioni compresa la pigrizia.
Abbiamo si avuto le fasi nelle quali i partiti esercitavano una influenza sulle correnti sindacali, ma questa è storia vecchia da passare all’archivio. Del resto, la situazione attuale è frutto di tanti passaggi. Mi limito a citarne alcuni.
La svolta definitiva si ha con l’avventura politica di Sergio Cofferati, che militarizza la Cgil nel tentativo di conquistare la direzione del PDS al Congresso di Pesaro e produce la catastrofe del disimpegno dalla politica della gran parte dei suoi seguaci nel sindacato. Migliaia di quadri che erano stati coinvolti nell’avventura traducono la sconfitta in demotivazione. Una Cgil nella quale non entravi in ruoli senza avere in tasca una tessera di partito si trasforma in una organizzazione di senza partito. Solo alcuni furbacchioni seguitano nel doppio gioco che gli procura anche una carriera parlamentare, Cofferati medesimo in primis.
Le attuali difficoltà anche rispetto all’esigenza di reagire alla tremenda situazione di questi anni hanno anche radici lontane. Qualche esempio.
Sul luglio 1992 si enfatizza l’operato di Trentin che firma e si dimette. Grande accorta astuzia di conoscitore-padrone della organizzazione, ma con un risvolto disastroso: tutti dispensati dal prendersi la responsabilità di un voto sull’accordo. Possibilità di dirsi contrari all’esito, ma con le mani legate dal gesto del capo che ha preso su di sé tutto il carico. È una tendenza alla deresponsabilizzazione che si può vedere in altri passaggi nei quali si manifesta solo una “opposizione di sua Maestà”, mentre ogni tentativo di ragionare all’interno della maggioranza viene bollato con il ricatto immorale secondo il quale “tu metti in discussione l’unità dell’organizzazione” anche contrapposta all’unità di Cgil Cisl Uil.
Il mito della centralità operaia ha mascherato tante condotte che ben poco avevano a che fare con l’essere organizzazione confederale. Dietro queste etichette si è potuto metterci ogni cosa, comprese le pensioni baby del pubblico impiego. La sostanza è che nel sistema di potere delle confederazioni sono forti le categorie e i gruppi che lo sono nel mercato del lavoro. Con degli eventi perfino comici: il 30 maggio 2007 si trova finalmente un accordo per i dipendenti pubblici che erano la principale preoccupazione dei nostri dirigenti confederali; taluni di loro si sono affrettati a dire che a seguire la priorità sarebbero i contratti dei metalmeccanici (in scadenza il 30 giugno) e degli alimentaristi (31 maggio). Non una parola sul contratto delle imprese di pulizia con mezzo milione di addetti in regola e altrettanti in nero e scaduto da due anni. Addirittura esilarante il documento del XV Congresso (2006) che proclama “una rinnovata centralità del lavoro pubblico, che ha in sé grandi opportunità: garantisce i diritti fondamentali delle persone, produce sviluppo, favorisce l’insediamento produttivo, è frontiera e presidio della legalità”. Ricordo che nel Direttivo ho visto non pochi imbarazzi quando si è votato e bocciato il mio emendamento soppressivo, ma c’era stato un patto di potere con la categoria che, così gratificata, avrebbe assicurato l’appoggio al vertice confederale.
Si seguita a predicare, seppure senza la animosità di altri tempi, che siano gli addetti stessi alla Pubblica amministrazione e al mondo dei servizi pubblici a prendere nelle loro mani la battaglia per l’efficienza dei servizi stessi. È sempre stata la tesi anche di Trentin. “La differenza di opinione tra me e Trentin sta nel fatto che io non considero plausibile affidare queste capacità di scelta alla maturazione responsabile dei diretti interessati.” (da Quale Stato n.1/2 anno 1998).
E allora?
“Allora la via è la rivolta degli utenti che possibilmente sia indirizzata verso chi comanda piuttosto che verso chi sta dall’altra parte dello sportello. Questo è compito che spetta alle Confederazioni che devono volerlo svolgere anche governando contraddizioni e conflitti che si possono manifestare all’interno stesso del mondo del lavoro tra gruppi e categorie. Per prendere in mano questo ruolo le Confederazioni devono archiviare la favola secondo la quale i lavoratori sono spontaneamente uniti per il superiore interesse generale del Paese. No: bisogna riconoscere che anche il mondo del lavoro è fatto di corpi separati; che si giustifica una dialettica degli interessi differenti che esistono e che talvolta sono in conflitto fra di loro. È bene che questa dialettica si manifesti, sia ammessa, organizzata e governata da chi ha il compito della direzione generale. È un compito immane al quale si è impreparati. Ma questo è il modo di essere utili ai lavoratori e al Paese in questa fase.” (mio articolo su Il Diario del Lavoro 9.6.2015)
Ci sono stati anche dei tentativi di praticarla questa condotta. Al quarto anno di mia presidenza Inca convochiamo per il 3-4 luglio 2006 una Assemblea dei quadri Inca di tutto il mondo a Bruxelles (coincide anche con 100 anni di Cgil, 60 anni di Inca e 50 dalla tragedia di Marcinelle. L’Assemblea si conclude alla miniera, con l’inaugurazione di un monumento di Antonio Nocera che tenta di rappresentare non solo la tragedia, ma la lotta e la speranza). Nel documento preparatorio (dal titolo “Argomenti per ragionare”) rispetto alle critiche secondo le quali i patronati fanno lavori inutili la nostra risposta è abolite i lavori inutili. E si passi all’automatismo delle prestazioni senza domanda quando gli istituti conoscono la condizione di diritto. “Se si riduce il lavoro inutile e se si estenderà la tendenza ad erogare prestazioni anche senza bisogno di domande avremo più spazio e possibilità per dedicarci a tante cose utili e più qualificate che oggi svolgiamo solo in parte e che possono riguardare il controllo delle posizioni o la difesa su fronti nuovi come le prestazioni del servizio sanitario.”
Mi ero sbilanciato a dire che questo lavoro andrà fatto anche se implica il litigare con chi sta dall’altra parte dello sportello. Apriti cielo, questo qui mette in discussione l’unità del mondo del lavoro. E allora si leva Amoretti dalla postazione di Presidente Inca nel Direttivo Cgil del 28 giugno. Come accade spesso nelle cose serie c’è sempre un lato comico. Epifani spiega il cambio alla Presidenza Inca con le ragioni del rinnovamento (dopo quattro anni di servizio) e nomina un successore (Raffaele Minelli) già in pensione e Consigliere Cnel di qualche anno più “maturo” di me. Si accenna anche a critiche sul mio operato che sarebbero arrivate da strutture periferiche, ma senza dire quali (le strutture e le critiche) e senza che ci sia modo alcuno di parlarne. Si tenta anche di far saltare l’Assemblea, ma la cosa non riesce, si risolve che non la si apre con una Relazione del nuovo Presidente, ma con un intervento di tale Aldo Amoretti dal titolo “partigiani dei diritti”.
Umberto Romagnoli accredita una Cgil che vuole l’”erga omnes” rispetto a una Cisl che, invece è contraria. Mi sono qualificato non solo come partigiano dell’erga omnes, ma come rompicoglioni sul tema. Non ho trovato mai interesse alla materia. Anzi obiezioni: se chiediamo erga omnes non potremo sfuggire dal subire qualche forma di regolamentazione delle organizzazioni. Questa implicazione era agitata come uno spauracchio.
Che dire poi delle vere a proprie sbandate in occasione dei referendum su articoli 18 e 19 dello Statuto?
È ricorrente la tendenza a fare propaganda senza ragionare sui fatti. Fin dagli anni Ottanta di fronte a fenomeni rilevanti e strutturali di lavoro nero si tenta di praticare una linea di gradualità per l’uscita dal sommerso. Combinare la pressione sociale degli interessati e l’azione repressiva degli ispettorati; offrire alle imprese la via della gradualità nell’arrivare ai salari minimi nazionali combinandola con sostegni alle imprese per poter diventare capaci di stare sul mercato rispettandone le regole. Non è stato un successo perché i tentativi di attuare questa condotta sono stati isolati e hanno perfino prodotto spostamento di imprese verso zone senza sindacato.
Il 3 dicembre 2003 la Cgil realizza un Convegno nazionale per proclamare che la linea della gradualità è rinunciataria e perdente, quindi da archiviare. Nel 2004 esce un libro con spiegata la nuova dottrina (“Lavoro nero e qualità dello sviluppo”). Generosi, ma un po’ coglioni quelli che ci hanno provato, dal momento che si sarebbero esercitati in politiche fondate soltanto sulla “riduzione del costo del lavoro a danno dei lavoratori” mentre invece “occorre passare dal concetto di emersione al concetto di accompagnamento verso il consolidamento e la qualificazione”.
Di fatto non sono pochi a ritenere che l’economia sommersa sia una medicina piuttosto che una malattia. Più feroce era Cesare Merzagora. Nel 1979 su Repubblica: “L’economia sommersa è sempre esistita in tutti i paesi del mondo, ma da noi ha assunto un aspetto mostruoso”. A quel tempo definiva “sconcertante la constatazione che importiamo manodopera di colore e comunque straniera per quei lavori pesanti o sgradevoli che i nostri lavoratori si rifiutano ormai di eseguire”. Aggiungeva come “sarebbe sciocco negare che queste “deviazioni”, più degne di un paese emergente del Terzo mondo che di una grande e tradizionale nazione come la nostra, siano positive, almeno per quanto riguarda l’occupazione operaia”. E quindi: “I sindacati fanno molto bene a chiudere un occhio su queste imprese perché se rappresentano un veleno dal punto di vista sindacale, sono però un prezioso antidoto contro i guai di una crescente disoccupazione giovanile”. E a proposito di lavoranti a domicilio: “i nostri sindacati imitano intelligentemente le tre famose scimmiette orientali che non vedono, non sentono e non parlano”.
Risparmio ragionamenti su finanziamento, bilateralità e dintorni. E lo ammetto: ho proposto una argomentazione disordinata e molto soggettiva.
E risparmio commenti su Cisl e Uil che non sono meglio.
È improbabile che nasca la considerazione sulla utilità di una dialettica degli interessi che possa riequilibrare quella “politica” di oggi che non è più quella delle correnti di una volta, ma è comunque speculare allo scenario politico esistente.
Né mi aspetto novità dal XVIII Congresso Cgil i cui documenti non vanno al di là del rituale.
Se sono rose…pungeranno.
Aldo Amoretti