Come riportato dal Diario del Lavoro, Maurizio Landini – che è il candidato alla Segreteria Generale di quello che resta ancora il più grande sindacato italiano, la Cgil – ha lanciato una proposta per una nuova unità sindacale. Lo ha fatto durante “le due giornate di Milano” – così in casa Cgil qualcuno ha soprannominato il congresso della Camera del lavoro milanese durante il quale Landini ha ufficialmente accettato la sua investitura – ma i bene informati sanno che è ciò che propone da tempo nelle varie assemblee a cui sta partecipando da settimane. E anche ieri, ospite di Lucia Annunziata a Mezz’ora in più, ha ribadito la sua proposta aggiungendo che “essere divisi ha portato ad un arretramento delle condizioni e per questo c’è bisogno di unirsi: per dare risposte ai giovani, ai precari e alle nuove forme di lavoro”. Per un approfondimento sul Landini pensiero, rimando a quanto già riportato su queste pagine.
La proposta di Landini, per quanto non sia una novità assoluta, va naturalmente accolta con favore, primo perché arriva da chi negli ultimi 10 anni, a torto o a ragione, ha rappresentato un radicalismo sindacale che non si è tradotto – salvo con la firma del ccnl metalmeccanico 2016 – in un’azione di unità sindacale; in secondo luogo perché, come si diceva prima, la proposta viene dai vertici del più grande sindacato italiano. E, a questo punto, l’ipotesi unitaria – che non significa sindacato unico – pare possibile.
Va detto intanto che la mancata unità sindacale non è un fatto nuovo ma una situazione di instabilità che dura da quasi 20 anni. Quando Forza Italia nel 2001 tornò a vincere le elezioni – successive al periodo dei governi Prodi e D’Alema –, Roberto Maroni era ministro del Lavoro e Maurizio Sacconi era sottosegretario: due nomi molto ostici per la Cgil. Tuttavia, il governo tenne un atteggiamento diverso rispetto a quello del ‘94: mentre allora Berlusconi non voleva concertare col mondo intermedio, all’inizio del suo secondo mandato decise di fare accordi con la parte disponibile a farli.
Nonostante le evidenti e numerose linee di continuità tra governi di centro sinistra e di centro destra – Marco Biagi, che già aveva collaborato con i governi Prodi e D’Alema, ripropose le proprie idee in tema di mercato del lavoro al governo Berlusconi – dal 2001 iniziava a registrarsi una forte tensione tra le organizzazioni sindacali, e tra la Cgil di Sergio Cofferati e l’esecutivo. Da una parte, naturalmente, il rapporto tra Cgil e governo di centrodestra era complicato di suo; dall’altra, sempre nel 2001, avvenne un fatto determinante. Terreno dello scontro tra la Cgil e il governo era naturalmente la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro.
La problematica situazione delle finanze statali stava contribuendo a rendere difficile la costruzione di un sistema di welfare che accompagnasse la flessibilità, ma a ciò si aggiungeva una debole sensibilità del governo nei confronti delle protezioni sociali. Punto di svolta di questa vicenda fu l’accordo del 2001 tra le Parti sociali: si trattava del recepimento della direttiva europea sul contratto a termine. L’Europa suggeriva di semplificare il contratto, il modello europeo era molto più semplice e più flessibile. Sulla questione, tuttavia, era molto diffusa l’idea di chiudere, di blindare il tempo determinato, che è il contratto flessibile più vantaggioso per i lavoratori e per le imprese. In questo modo però si aprivano le porte all’uso distorto dei co.co.co. e delle altre forme spurie, cosa che ricorda gli effetti prodotti oggi dal decreto dignità. Un non senso di rigidità che penalizzava i lavoratori. Alla fine, si scelse tuttavia di alleggerire il contratto a termine, come del resto suggeriva l’Europa con la direttiva.
La Cgil pero’ non ne voleva sapere, era fortemente contraria alla direttiva. Ma Confindustria firmò l’accordo con Cisl e Uil, che in un secondo momento fu poi condiviso e sottoscritto da tutte le altre associazioni: la Confcooperative, la Lega delle Cooperative, la CNA, la Confartigianato, la Confcommercio, la Confesercenti, etc. Fino a quel momento, su tutte le vicende, su tutta la filiera sociale, la Cgil aveva avuto un’egemonia molto forte. In quella situazione però rimasero tutti spiazzati dalla rigidità della Cgil, e quindi presero un po’ di tempo. Quando arrivò l’accordo, non firmarono subito, ma alla fine lo fecero.
In questa fattispecie, la Cgil si trovò isolata. Prima di allora, gli accordi interconfederali erano sempre stati condivisi, non era mai successo nulla del genere. Fu la prima frattura che avvenne nella filiera sociale, cosa che lasciò il segno. La Cgil andava sempre più isolandosi: dalla rottura completa sulla legge Biagi (2003) fino alla mancata condivisione dell’accordo del 2009 sugli assetti delle relazioni industriali. Poi ci fu il caso Fiat, di cui non serve ricordare il grande protagonismo di Maurizio Landini. E a ciò che ne seguiva – gli accordi del 2011 e del 2013 su contrattazione aziendale ed esigibilità dei contratti e il Testo Unico sulla Rappresentanza del 2014 – fu proprio l’ex segretario generale della Fiom a opporsi alla scelte della Cgil che con quelle intese si riallineava a Cisl Uil e Confindustria, in particolare dopo quanto era successo col caso Fiat.
Siamo ai nostri giorni in cui, dopo la firma dell’importante ccnl metalmeccanico 2016, si registra anche il “Patto per la fabbrica”: che non è rivoluzionario nei suoi contenuti ma riposiziona in modo unitario Confindustria Cgil Cisl e Uil. Non solo, ma la tendenza alla disintermediazione dei governi che si sono succeduti oggi tocca il suo punto massimo. La politica ormai da anni governa in forma di campagna elettorale continua e con lo strumento del decreto legge: anche il Parlamento è ormai esautorato della sua funzione. Oggi, nel cuore della definizione della legge di bilancio – il provvedimento più importante dell’anno –, le Parti non sono nemmeno ascoltate. Ma non è solo questo, ormai questo nuovo corso politico – si legga nuovo solo in termini temporali – non è contro il sindacato (cosa che si rimproverava a Matteo Renzi), ne è completamente distante e lontano per cultura.
In questo scenario, è chiaro che o Cgil Cisl Uil si ritrovano su una posizione unitaria o sono destinate all’irrilevanza. Il discorso è diverso per il sindacato di settore perché è presente nei luoghi di lavoro; ma quello confederale o recupera forza e credibilità o smarrirà completamente la sua funzione.
Il punto è però cosa significa unità: non c’è unità se non in una visione che si concreta in un percorso fatto insieme, in un’azione comune. Cgil Cisl Uil non solo devono recuperare e condividere un’idea di progetto a lungo termine che si traduca poi in un percorso di ricostruzione del Paese con al centro la persona, il lavoro e lo sviluppo dell’economia; ma determinante sarà soprattutto la capacità di far vivere un nuovo sentimento e un nuovo impegno, e di tenere insieme le persone nella mediazione. In altri termini, ciò che farà la differenza sarà la capacità di organizzarsi. E, in questo, sono sempre i più alti dirigenti ad essere decisivi.
Landini ha detto, e lo ha ribadito domenica nella trasmissione di RaiTre: “in vita mia non mi sono mai candidato a nulla perché sono della scuola che tutti siamo al servizio dell’organizzazione”. Sono parole importanti di chi ha a cuore l’organizzazione prima della sua persona e che ci auguriamo Landini possa ribadire se non dovesse essere lui il Segretario generale eletto a Bari, visto che si va verso una seconda candidatura (di Vincenzo Colla, ndr). Perché di Landini, grande sindacalista, ci sarà sicuramente bisogno ancora. Ma, soprattutto, di una Cgil unita, indispensabile per quell’unità di cui Landini oggi è promotore.
Giuseppe Sabella, direttore Think – Industry 4.0
Twitter: @sabella_thinkin