Un bivacco di manipoli. La minaccia di Benito Mussolini, pronunciata dopo la marcia su Roma nell’aula “sorda e grigia”, si è avverata. Il Parlamento, lo dice la parola stessa, dovrebbe essere il luogo del supremo confronto e delle meditate decisioni. Ma, ormai da anni, i due palazzi, Montecitorio e Madama, sono abitati da truppe confuse in attesa di ordini. I dibattiti sono degli inutili quanto roboanti monologhi, pronunciati solo per esibire con proterva sicumera presunte certezze e per ricoprire l’avversario, anzi il nemico, di nefande accuse. Mai gli urlati e cacofonici battibecchi hanno una pur minima velleità di convincere almeno in parte chi non è d’accordo, la ricerca di qualsiasi mediazione o ragionevole compromesso viene bandita qual fosse prova di tradimento.
Si può obiettare che è sempre stato cosi, che gli scontri tra comunisti, democristiani e missini non erano solo verbali ma assumevano una fisicità da angiporto. Vero, ma persino le risse sedate a stento dai commessi avevano qualcosa di nobile, figlie di ideali che si volevano difendere strenuamente. E ogni intervento era pronunciato come se si parlasse nell’agorà, con profonda cultura e abile retorica, quasi s’indossasse una toga intessuta di dignità. Erano chiamati onorevoli, e volevano, se non proprio esserlo, almeno apparire tali. Poi, con Tangentopoli, con la crisi dei partiti, con il crollo dell’etica pubblica, con la politica ridotta a sopravvivenza, è arrivato il progressivo svilimento. Fino all’ora del dilettante.
Beppe Grillo, senza citare di nuovo il Duce, l’aveva annunciato di voler aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. I Cinquestelle, con l’aiuto degli alleati leghisti, ci sono riusciti. E l’olio è tracimato nel paese, ungendo e macchiando in maniera indelebile ogni residuo di credibilità. La campagna contro i vitalizi è stata l’ultimo pretesto per mettere alla gogna gli ex parlamentari indicandoli come inutili e dannosi parassiti. Certo, anche i precedenti governi, in testa quello di Matteo Renzi, avevano ridotto le Camere ad una fabbrica di soli voti di fiducia. E l’allora presidente del consiglio, e segretario del Pd, promosse il referendum che proponeva l’abolizione di uno dei due rami, in nome dell’efficienza decisionale. Fu sconfitto e da quella debacle ha avuto inizio la crisi, personale e del suo partito.
Eppure non si era mai giunti a un punto tanto basso quanto l’attuale, con i deputati impegnati a discutere, a votare e approvare una manovra economica falsa, facendo finta che fosse vera, aspettando le decisioni finali del governo e gli esiti della trattativa con l’Unione europea. Siamo al teatro dell’assurdo, all’attesa di Godot. D’altronde, i grillini esaltano una fantomatica democrazia diretta fatta di clic su incontrollate piattaforme digitali e Matteo Salvini sostiene addirittura di parlare a nome di sessanta milioni di italiani. E allora, che bisogno c’è di un Parlamento? Ci prova un po’ Roberto Fico a difendere l’istituzione che presiede ma la sua voce fuori dal coro non incide sull’immaginario collettivo. E i manipoli bivaccano, lambiti persino da leggende boccaccesche che raccontano di fugaci amori negli ascensori o nei bagni.
Dopo il delitto Matteotti e la scelta da parte dell’opposizione di salire sull’Aventino, l’illusione degli antifascisti era che la questione morale potesse alla fine prevalere sulla violenza e sull’arbitrio. Benedetto Croce era sicuro di un “ineluttabile ritorno al regime liberale”. Trionfò la dittatura. La tragedia di ieri si è mutata nella farsa di oggi.
Marco Cianca