Sta giungendo al termine l’accertamento dei dati relativi alla rappresentatività nel settore pubblico. Un processo di certificazione delle percentuali tanto associative che elettorali che viene sempre considerato troppo lento. Ma che consiste in un importante unicum all’interno delle nostre relazioni industriali, sia per il metodo che è di tipo concertativo – tra Aran e sindacati – e per questo prende tempo, sia per la sua portata sostanziale di strumento per la selezione dei soggetti ammessi alla contrattazione nazionale (e ai benefici correlati).
La certificazione, ora arrivata in dirittura d’arrivo, va considerata di grande rilievo anche per un’altra ragione. Si tratta della prima volta che essa si completa dopo l’Accordo quadro sui comparti, che ha ridotto a quattro i comparti (e le aree) contrattuali del personale pubblico. Si è trattato dell’onda lunga dell’intervento normativo voluto da Brunetta circa un decennio fa e che ha prodotto un’architettura negoziale più compatta e lineare. Bisogna enfatizzare il fatto che il pubblico impiego è al momento l’unico che abbia posto mano concretamente alla razionalizzazione/riduzione del numero dei contratti: reclamato da tutti gli attori, ma che negli altri settori produttivi ha dato invece vita ad una non inspiegabile ma paradossale proliferazione.
I dati anticipati dal Diario non sono ancora definitivi e quindi vanno rinviate analisi e raffronti di carattere più sistematico e scientifico. Qualche osservazione comunque è possibile avanzare anche sulla base del primo commento di Massimo Mascini.
Cosa ha influenzato di più questi dati? La riduzione del numero dei comparti contrattuali (cui corrisponde il maggior numero di lavoratori in ciascuno di essi) o un quadro normativo più sfavorevole all’istituzionalizzazione delle relazioni sindacali nel settore?
A prima vista sembra che la variabile che ha pesato di più sia la seconda. A comparti più grandi avrebbero dovuto corrispondere condizioni di maggior favore per i grandi sindacati (i sindacati di tipo ‘inclusivo’, come direbbe Visser). Ma così non è stato, perché invece in questi risultati i maggiori beneficiari sembrano essere i sindacati autonomi e di base, che a partire dalle prime elezioni del 1998 avevano sempre visto contenuto il loro numero e il loro peso. In questa occasione è aumentato il numero dei sindacati divenuti rappresentativi, che cioè hanno superato la soglia fatidica del 5% (media tra dati associativi ed elettorali), invertendo il trend di lungo periodo di selezione/semplificazione dei soggetti ammessi ai tavoli nazionali.
E nello stesso tempo si è ridotto il dato percentuale conquistato dai sindacati confederali, che in alcuni momenti passati aveva superato significativamente la soglia dell’80 % (prendendoli tutti insieme).
Esiste una linea di continuità con il passato, ma anche qualche cambiamento che vede una sofferenza inedita nel riconfermare le posizioni precedenti da parte del sindacalismo confederale (in particolare della Cgil).
I sindacati confederali nel loro insieme si confermano largamente maggioritari nelle aree contrattuali (altra storia, però ben nota, quella delle aree dirigenziali), ma con una erosione dei loro consensi. La loro egemonia resta incontestata, e questo lo si può vedere nel fatto che in tutti i comparti le tre Confederazioni classiche occupano sempre i primi tre posti nella gerarchia della rappresentatività: ma con un restringimento quantitativo in alcuni casi significativo. La Cgil subisce le perdite più importanti, solo in parte compensate dai guadagni e dalla sostanziale tenuta fatti registrare dalla Uil. Più discontinui gli andamenti della Cisl, che riguadagna comunque – grazie alla contrazione della Cgil – il primo posto nel comparto dell’Istruzione e della scuola: un territorio comunque vocazionale per quella organizzazione, che ne aveva detenuto in passato a lungo il primato (nella prima Repubblica, ante era della verifica della rappresentatività).
Sul fronte del sindacalismo autonomo e professionale si segnala il buon risultato della Confsal, che si candida a connotarsi come la ‘quarta’ Confederazione sindacale del pubblico impiego: uno status che già possedeva e che viene ora ribadito, grazie allo score significativo di dati superiori al 10% in tre dei quattro grandi aree di negoziazione. Un risultato ottimo, nonostante i numeri dello Snals, storico sindacato della scuola, pure importanti, non toccano le punte più elevate del passato.
Ma buoni sono anche i risultati di altri soggetti, come la Cisal che diventa largamente rappresentativa in due delle aree negoziali, dopo che nel 2008 era restata fuori dai tavoli negoziali. Sorprendente appare anche il dato dell’Usb nei comparti delle funzioni centrali (ministeri e dintorni) che la porta a superare l’8% dei consensi. È rilevante nella sanità la presenza di attori, solo in parte nuovi, legati soprattutto alle professioni infermieristiche: Nursind e Nursing up raggiungono insieme la ragguardevole cifra del 17% ca.
Nelle aree dirigenziali prevalgono in modo pressoché generalizzato, ma secondo tradizione, le Confederazioni autonome della dirigenza. Ma anche in questo caso si può enfatizzare la novità costituita dal successo trasversale, qualche volta consistente, della Cosmed: la Confederazione di storia più recente, costituita dai medici dell’Anaao e che ha attecchito anche in altre realtà produttive.
Cosa ci raccontano in prima approssimazione questi dati?
La prima considerazione in ordine di importanza si riferisce all’impatto non positivo della lunga fase di oscuramento della contrattazione. Le concause che concorrono a questa (parziale) eclisse sono di due tipi e si sono sommate: la riduzione degli spazi regolativi della contrattazione voluta dalle leggi Brunetta e il lungo blocco dei rinnovi contrattuali (interrotto solo prima delle elezioni politiche del 2018). Appare plausibile ritenere che il sindacalismo confederale non abbia beneficiato di questa situazione decisamente problematica. E la Cgil che era l’organizzazione più identificata con la nuova fase della privatizzazione, avviata nel 1993, sia stata quella maggiormente penalizzata: così come aveva tratto i maggiori benefici dal regime precedente.
Il deficit dell’orizzonte negoziale ha riaperto uno spazio per la protesta e per logiche d’azione di tipo più particolaristico: un quadro che presenta certamente maggiori affinità con la tradizione organizzativa del sindacalismo autonomo (o forse dovremmo cominciare a dire ‘neo-autonomo’).
Sarebbe però sbagliato leggere i successi, comunque parziali, di alcune sigle autonome e di base solo attraverso il filtro della riproposizione di ‘vecchie’ richieste corporative. In realtà per certi versi si può ritenere che esse provino ad interpretare disagi, non solo materiali, di portata più generale. Ma va anche ricordato d’altro canto che molte di queste organizzazioni ottengono successi, anche se parziali, proprio in quanto partono da istanze di breve raggio che hanno inserito in logiche di tipo più confederale-trasversale (quelle che si potrebbe definire come encompassing): cosa che le ha rese competitive nell’arco dei grandi numeri necessari per oltrepassare le soglie di rappresentatività.
L’aspetto virtuoso di questo ragionamento è confermato dalla confederalizzazione della Confsal che ha ampliato il suo radicamento, limitato originariamente solo a pochi settori. Ed anche, in ambito dirigenziale, dalla Cosmed che ha dato corpo in corso d’opera al profilo, almeno in parte inedito, di un sindacalismo dei ceti medi dal timbro modernizzante e di significato trasversale.
Andrà fatta una riflessione più in profondità e più fondata su numeri certi e longitudinali.
Resta il fatto che, nonostante i sommovimenti in atto, il sindacalismo di respiro confederale abbia resistito complessivamente bene. Sia attraverso i suoi interpreti tradizionali che attraverso l’adesione di altri attori al paradigma di una rappresentanza a largo spettro (encompassing): non eliminando, ma mettendo sullo sfondo i rivendicazionismi spiccioli.
Non è poca cosa. Soprattutto se saranno confermati – insieme alla tenuta della sindacalizzazione – i dati, miracolosi, relativi alla elevata partecipazione dei lavoratori alle elezioni delle Rsu: un investimento fiduciario da parte dei lavoratori ancora più positivamente sorprendente se si tiene conto della lunga latenza della contrattazione.
Dunque nonostante la presenza di alcune condizioni avversative la vera notizia, non scontata, è che il sistema di rappresentanza del pubblico, ben sostenuto dalla legge, continua a funzionare in modo egregio e accettato dai lavoratori: una lezione positiva anche per gli altri settori del nostro sistema di relazioni industriali.
Mimmo Carrieri