Che Il “reddito di cittadinanza” (nella versione più diffusa e prevista anche in Italia di “reddito minimo condizionato”) possa essere, se correttamente disegnato e applicato, un potente strumento di politica attiva del lavoro è incontrovertibile. Le critiche che vengono avanzate In proposito sono quasi sempre (se non sempre) insipidamente qualunquiste o fondate su una carente conoscenza dello strumento (a voler escludere la malafede).
Tuttavia, affermare che l’applicazione del suddetto reddito di cittadinanza abbia la capacità di creare nuovi posti di lavoro è soltanto espressione di una illusione. Illusione che diventa smisurata quando gli si imputano addirittura incrementi dell’occupazione dell’ordine di grandezza di “un milione” in tre anni. Illusione nella quale purtroppo sembrano talvolta cadere gli stessi sostenitori del reddito di cittadinanza.
Perché si tratta di una illusione? Semplicemente perché il meccanismo delle “politiche attive del lavoro”, di cui il reddito di cittadinanza dovrebbe essere la colonna portante, ha la proprietà di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro ma non quella di accrescere la domanda. In altre parole, tende a coprire i posti vacanti, e quindi in tal modo ad aumentare l’occupazione facendo diminuire la disoccupazione frizionale, ma non a creare nuovi posti di lavoro. La rimozione di tutti i fattori che ostacolano l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (in particolare l’insufficiente informazione, le procedure selettive, il mismatch tra caratteristiche della domanda e caratteristiche dell’offerta) costituisce l’obiettivo delle politiche attive del lavoro. Pertanto, dire che l’occupazione crescerà di x unità per via dell’introduzione del reddito di cittadinanza implica ipotizzare che esistano attualmente x posti di lavoro disponibili che sono vacanti o perché non vi sono persone disponibili ad accettarli o perché non vi sono persone in possesso dei corrispondenti requisiti. Di conseguenza, quando col reddito di cittadinanza saranno eliminati questi ostacoli, tutti i posti vacanti saranno coperti e l’occupazione crescerà, ceteris paribus, in egual misura. Perciò, dire che il reddito di cittadinanza farà aumentare l’occupazione di un milione di unità significa dire che esiste un milione di posti di lavoro disponibili, ma non coperti per cause di natura frizionale, il che intuitivamente sembra un po’ esagerato, salvo prova contraria.
In realtà la creazione di “nuovi” posti di lavoro è necessaria sia perché l’offerta di lavoro eccede la somma degli occupati più i posti vacanti, sia perché il meccanismo della condizionalità del reddito di cittadinanza opererà un passaggio consistente di non forze lavoro nell’aggregato della forza lavoro con presumibile incremento del tasso di disoccupazione. Incremento da considerarsi positivo se accompagnato da contestuale incremento dell’occupazione, anche per il suo impatto sul reddito potenziale con le relative implicazioni sul parametro del disavanzo strutturale adottato in sede Europea per determinare i margini dell’indebitamento pubblico.
Ma sull’obiettivo della creazione di posti di lavoro il reddito di cittadinanza è quasi totalmente ininfluente, tranne che per due vie: l’azione di sostegno alla creazione di nuove iniziative imprenditoriali autonome (autoimprenditorialità) e gli effetti moltiplicativi della spesa pubblica messa in bilancio sotto tale voce. La prima via è fortemente condizionata dalla capacità operativa dei centri per l’impiego. E’ superfluo dire che tale capacità è il fattore decisivo (e critico) per il funzionamento dell’intero meccanismo del reddito di cittadinanza, sia sotto l’aspetto della facilitazione dell’incontro tra domanda e offerta, sia sotto l’aspetto della formazione, sia sotto l’aspetto (cruciale) della verifica delle condizionalità: tutti aspetti piuttosto complessi che presuppongono strumentazioni e competenze personali al momento non propriamente sviluppate in tali strutture.
La via del meccanismo moltiplicatore, peraltro, è strettamente subordinata all’elasticità dell’offerta. La crescita della domanda interna, fortemente sacrificata nel nostro paese dalle politiche economiche basate su un modello “export led”, esplica i suoi effetti sul livello di attività economica e sull’occupazione soltanto se il sistema produttivo è in grado di rispondere positivamente agli impulsi della domanda; altrimenti, in un sistema aperto come il nostro, gli effetti moltiplicativi si trasferiscono all’estero attraverso l’incremento delle importazioni. Per evitare questo è necessario “accompagnare” (e non rinviare a una “fase due”) le politiche attive del lavoro con adeguate politiche dell’offerta; articolate principalmente in due direzioni: crescita della produttività e della competitività (che non è solo innovazione tecnologica, ma sburocratizzazione, miglioramento istituzionale, ristrutturazione fiscale, e così via); consolidamento e diversificazione della struttura produttiva con adeguate politiche industriali. È inoltre fondamentale che un sostanziale impulso espansivo sia esercitato anche da un ulteriore incremento del “moltiplicando” attraverso massicci investimenti pubblici.
Tutte queste possibilità di innalzamento del livello di attività economica e dell’occupazione potrebbero tuttavia essere vanificate se non si verificassero due condizioni preliminari assolutamente necessarie: riduzione dei “costi di aggiustamento” attraverso la mobilità del lavoro e prevenzione di eventuali colli di “bottiglia” dovuti ad assenza delle necessarie nuove competenze professionali. E qui torna in gioco in maniera decisiva il ruolo del meccanismo del reddito di cittadinanza attraverso i suoi contenuti di politiche attive del lavoro.
È chiaro che in assenza di effettiva operatività in queste capacità funzionali lo strumento del reddito di cittadinanza verrebbe praticamente sterilizzato. Resterebbe in piedi soltanto la sua componente di misura contro la povertà, importante anch’essa, ma soggetta a diffusissimi e devianti abusi se non rigorosamente controllata e da affiancare comunque a misure nei confronti dei “working poors”.
La conclusione di questa riflessione è che il reddito di cittadinanza, se correttamente applicato, è in grado di dispiegare tutti i suoi effetti potenziali soltanto se accompagnato da una serie di altre misure di politica economica, come parte costitutiva di una strategia organicamente concepita per integrare le politiche del lavoro con le politiche di sviluppo. Elaborare tale strategia complessiva dovrebbe costituire il fondamento dell’azione di governo. La titolarità unificata dei due ministeri del lavoro e dello sviluppo economico sembrava presentare una occasione favorevole per procedere in questa direzione innovativa rispetto ai frammentati e disorganici interventi del passato. Può darsi che il processo sia incominciato, ma non vorrei condividere in proposito l’esortazione di Leopardi, che il risultato “ch’anco tardi a venir non ti sia grave”!
Sebastiano Fadda