‘’Potremmo fare una rubrica settimanale da qualche parte dal titolo: Chi ruba (anche a sua insaputa) il futuro ai nostri giovani e ogni numero lo dedichiamo ad un argomento … ci prendiamo la Gias e vediamo tutte le voci ….. e le spieghiamo al popolo …. in parole più semplici di quelle che usa ogni tanto Cazzola a La7 che misura spesso il suo modo di parlare con se stesso senza considerare che il 99% di quelli in studio (in particolare Giannini e Floris) o in collegamento ignora anche il significato delle parole “tecniche” e lo stesso succede con il 90% dei telespettatori del circo’’. (SP) Questo è un brano di una delle ultime mail scambiate con Stefano Patriarca.
Ho voluto ricordare le sue parole perché sono in qualche modo la prova di ciò che era Stefano, di come coltivasse sempre nuove idee e di quanto abbiamo perduto con la sua scomparsa, imposta da una malattia misteriosa e implacabile che lo ha strappato, nell’arco di pochi mesi, ai suoi cari. Patriarca non era solo un compagno (l’avevo conosciuto più di trent’anni fa in Cgil) e un amico; era un combattente dalla parte giusta, quotidianamente impegnato a contrastare l’ondata di becero populismo che sta sommergendo il nostro Paese. Dopo aver fatto parte del brain trust di Palazzo Chigi nella trascorsa legislatura e partecipato all’elaborazione di una politica riformista in materia di lavoro e di welfare, aveva costituito un centro studi – Tabula – che in breve tempo era riuscito ad affermarsi. Le sue note sui problemi di attualità venivano riprese dai media, i suoi dati (per esempio, sui costi delle avventure che il Paese stava correndo in materia di pensioni) erano affidabili e facevano opinione.
‘’Nel 2017 – aveva scritto a proposito degli interventi sulla riforma Fornero che sarebbero potuti arrivare con il nuovo Governo secondo le promesse elettorali – sono state liquidate dall’Inps nel solo settore privato circa 290mila nuove pensioni previdenziali dirette e tra queste circa 160mila di anzianità. In media chi è andato in pensione anticipata aveva 61 anni. “Se oltre a quota 100 si prevedesse anche la possibilità di uscire con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età – concludeva – il costo il primo anno sarebbe di 12,3 miliardi e di quasi 16 a regime”. La malattia gli ha impedito di seguire e commentare la messa in opera del decreto legge sul reddito di cittadinanza e le pensioni. Non avrebbe certo esitato a far sentire la sua voce e a far pesare quell’esperienza, da tutti riconosciuta, che veniva da lontano. Quando era in Cgil, fu, insieme a Beniamino La Padula, il ‘’tecnico’’ che seguì per conto della confederazione il percorso della Riforma Dini (legge n. 335/1995), che resta, pur con i suoi limiti, il caposaldo del nostro sistema pensionistico. Poi passò a dirigere il Formez. In seguito, fu assunto all’ufficio studi dell’Inps.
Fu per lui questo un lungo periodo difficile nel corso del quale finì per ricoprire incarichi non sempre adeguati alle sue qualità. Ma volle mantenere intatta la propria onesta intellettuale, pur consapevole che quello dei riformisti è un mestiere difficile, perché nessuno è disposto a perdonare chi è capace di avere ragione prima degli altri. Nel ricordare il ventennale della riforma Dini, Stefano scrisse, insieme al figlio Fabrizio, un saggio ‘’A vent’anni da una riforma mancata’’ sulla rivista Politiche sociali della Cgil. Era, la loro, una denuncia premonitrice di quanto sarebbe accaduto ai nostri giorni. ‘’Nei fatti – era scritto – hanno goduto del vecchio sistema di calcolo proprio le platee di lavoratori che nel sistema retributivo determinavano maggiormente le sperequazioni distributive e le pressioni sull’innalzamento della spesa alle quali si voleva rimediare con la riforma’’. Il fattore centrale di questo squilibrio – proseguiva il saggio – era in maggior parte connesso al fattore ‘’età di accesso alla pensione’’ con un enorme incremento delle pensioni di anzianità caratterizzate da età di pensionamento attorno ai 57-58 anni per gli anni 2000-2010 (favorite, peraltro, anche dalla liberalizzazione del cumulo tra pensione e reddito).
Ne sono derivate diverse conseguenze: in Italia il tasso di occupazione della popolazione in età compresa tra i 55 e i 64 anni è il più basso di tutti i Paesi considerati e si situa al di sotto sia della media europea sia di quella dell’Eurozona; la permanenza media sul mercato del lavoro è ben di cinque anni inferiore alla media europea, di sette anni più bassa di quella della Germania e del Regno Unito e di quasi 10 anni rispetto a quella olandese. Tale differenziale – segnalava il saggio – diventa ancora più ampio per le donne: l’Italia è l’unico Paese in cui la durata media della vita attiva delle lavoratrici è inferiore a 25,5 anni. A tutto ciò corrisponde una speranza di vita per gli ultra65enni allineata con la media europea. Al dunque, si lavora per meno anni, si pagano più pensioni, si ha la stessa aspettativa di vita. Tra il 1998 e il 2014 – questi i dati riportati dai Patriarca – sono state liquidate in Italia più di 7 milioni di pensioni di vecchiaia e di anzianità. Di queste 3,5 milioni sono di vecchiaia per un ammontare pari a 33 miliardi, con un importo medio della pensione pari a 750 euro mensili ed un’età media di accesso al trattamento pari a 63 anni.
Di contro, le pensioni di anzianità liquidate, nello stesso periodo, sono state 3,6 milioni, con un importo cumulato di spesa pari a 76 miliardi, una pensione media pari a 1.616 euro mensili e con un’età di accesso pari a 58 anni. Così, ben 3,6 milioni di persone con un’età media di 58 anni hanno percepito pensioni di livello medio-alto, pari a più del doppio di quelle erogate, in media cinque anni dopo, a chi è andato in pensione di vecchiaia. Fino a qui il saggio. La riforma Fornero ha cercato di porre rimedio a tale situazione, ma vi è riuscita solo in parte, perché il pensionamento anticipato continua ad essere la forma prevalente della quiescenza. Ed è in questa situazione che il governo giallo-verde sta cercando di tornare ancora più indietro. Ecco perché Stefano ci mancherà. Nella battaglia politica di questi mesi, in cui si gioca l’avvenire del Paese, nei nostri ranghi, già reduci da pesanti sconfitte, è venuto a mancare un combattente valoroso, difficilmente sostituibile, perché non si diventa Stefano Patriarca senza sottoporsi ad una rigorosa e lunga disciplina fatta di studio, lavoro e coraggio.
Da ieri ognuno di noi è più solo. Ci è di conforto pensare che Stefano continuerà a giocare, nella serenità dei Campi Elisi dei Giusti, la consueta partita di calcetto, ogni venerdì sera. Sempre nel ruolo di portiere.
Giuliano Cazzola