Cara e porca Italia! La dolente invettiva che Giuseppe Prezzolini fa pronunciare a Macchiavelli risuona beffarda in questo 2019, cinquecentocinquantesimo anniversario della nascita di messer Nicolò. E’ ancora un fiorire di biografie. Alberto Asor Rosa ne ha appena vergata una, molto recensita. “Macchiavelli è uno sconfitto. Arriva ad elaborare una teoria sull’Italia, e poi sul governo, sulla politica, da un’esperienza di sconfitta, che poi diventa una disfatta e una catastrofe. E’ difficile sottacere questo aspetto, anche per capire la sua scelta. Le idee sono repubblicane, democratiche. Ma il Principato è lì, è l’unica strada, non ce ne sono altre. E lui coraggiosamente la imbocca”, ha spiegato l’insigne italianista durante un forum organizzato dall’Espresso.
Nel 1969, nel cinquecentesimo anniversario, un analogo dibattito fu sollecitato dal Corriere della Sera. Disse in quell’occasione Alberto Moravia: “Macchiavelli era un repubblicano e un appassionato difensore della libertà. Ciononostante egli ha fatto nel Principe un perfetto elogio della tirannide. Strana contraddizione. Verrebbe fatto di pensare che il machiavellismo sia stato originato da una stortura morale, da una sforzatura psicologica. Come il sadismo, altra parola coniata col nome dell’autore che per primo ha parlato di questo vizio, il machiavellismo sarebbe la realizzazione paradossale ed estremistica di una frustrazione, di un fallimento personale. Macchiavelli, politico fallito come De Sade, vizioso fallito, avrebbe cercato di dire nei libri quello che non gli era riuscito di fare nella vita”.
Argomentazioni diverse ma un’analoga chiave di lettura: il pensatore fiorentino era un perdente. E allora tra le innumerevoli opere a lui dedicate, spicca, insuperabile, quella creata da un altro dolente minoritario, appunto Giuseppe Prezzolini. La “Vita”, romanzo più che cronaca, funziona come un gioco di specchi tra esistenze lontane nei secoli ma vicine nel pessimismo sulla capacità dei concittadini di conquistare e difendere da soli la civile convivenza e la giustizia sociale. Un grande scrittore racconta con stile sublime i tormenti di colui che a sua volta fu un grandissimo scrittore, la cui prosa, per dirla con Francesco De Sanctis, suonò presentimento di quella moderna.
Macchiavelli, Prezzolini e la fragile penisola sempre alla ricerca di chi la emancipi, la protegga e la governi. E’ storia antica, è storia di questi giorni. Gli stranieri invasori non sono le truppe di Carlo VIII ma gli immigrati. Neri al posto dei lanzichenecchi. Francia e Germania di nuovo indicate come vessatrici, anche se, invece di spadoni e colubrine, per dominarci usano le banche. “Cara e porca Italia, tu sei il giardino d’Europa, ma ti manca una bella siepe di spini all’intorno che stia ad indicare che sei proprietà di qualcuno, e dei bei viottoli nel mezzo per renderti ordinata, seminata, innaffiata in ogni tua parte. Potess’io farti quella siepe!”. Parole che sembrano riecheggiare nei proclami sovranisti. E noi italiani siamo ancora così immaturi, impauriti, rabbiosi e vili da voler chiudere le frontiere e affidarci ad un nuovo Principe?
“Sappiamo che i popoli son presi in certi momenti dal bisogno d’essere comandati, e non vogliono pensare, non discutere, non riflettere, non porsi problemi, non tormentarsi. Non avere dubbi, ma accettare ciò che altri risolve per loro conto; e che allora un tiranno è utile, necessario, benefico, provvidenziale”, argomentava l’inventore della congregazione degli apoti, quelli che non se la bevono. Confessiamo: ci sembra più d’attualità lui che Asor Rosa.
Aveva però un rovello, che non riuscì a risolvere: “Da qual piede cominciava a scalzarsi la sera il Macchiavelli?”. C’è chi inizia dal destro e chi dal sinistro: “Da queste diversità nascono diverse abitudini degli uomini”. Matteo Salvini, con un post, potrebbe chiarire quale scarpa si toglie per prima. I particolari sono fondamentali.
Marco Cianca