“Saremmo stati più poveri senza l’Europa; lo diventeremmo se dovessimo farne un avversario.” E’ forse questa la frase in cui meglio si riassume il senso, teorico, analitico e politico, delle Considerazioni finali della Relazione annuale, svolte oggi dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco.
Come è noto, in base a una tradizione ormai pluriennale, l’ultimo giorno lavorativo del mese di maggio è quello in cui, a Roma, si riunisce quella che, formalmente, viene denominata come Assemblea ordinaria dei Partecipanti del nostro ex Istituto di emissione. Assemblea cui il Governatore presenta la sua Relazione annuale, un corposo volume che, per solito, supera le 200 pagine, ricche, oltre che di parole, di cifre e di grafici. Ed è proprio in questa occasione che, seguendo una prassi inaugurata da Guido Carli quando quest’ultimo era al vertice della Banca, il Governatore comunica il suo pensiero sull’andamento della nostra economia tenendo, appunto, le cosiddette Considerazioni finali.
La giornata, fuori dai saloni ovattati di palazzo Koch, sede della Banca d’Italia, si annunciava, per certi aspetti, pesante o, quanto meno, agitata. Per una singolare coincidenza, quest’anno il 31 maggio era infatti anche il giorno entro cui il Governo italiano era chiamato a rispondere alla famosa quanto attesa lettera inviatagli, all’inizio della settimana, dalla Commissione dell’Unione europea. Lettera in cui venivano chieste spiegazioni sulla crescita del disavanzo registrata ultimamente nei nostri conti pubblici nonostante gli impegni presi, nei mesi scorsi, dal nostro Esecutivo con la Commissione stessa.
A rendere più fosco il quadro della giornata, tre notizie prodottesi nelle prime ore del mattino. In primo luogo, il fatto che l’ormai citatissimo spread, ovvero il differenziale fra il rendimento dei buoni del tesoro tedeschi e di quelli italiani, avesse superato i 290 punti, salendo a quota 293. Poi, un comunicato emesso dall’Istat, con cui il nostro Istituto centrale di statistica rendeva noto di aver rivisto al ribasso i dati sul Pil nel primo trimestre del corrente anno. Pil che risultava dunque cresciuto, rispetto al quarto trimestre del 2018, di un risicatissimo 0,1% rispetto al comunque modesto +0,2% stimato in aprile. E diminuito dello 0,1% rispetto al primo trimestre del 2018, mentre, sempre a fine aprile, si era stimato che fosse stata conseguita, anno su anno, una modesta crescita tendenziale dello 0,1%. Infine, l’annuncio della chiusura dello stabilimento napoletano della Whirlpool.
Ovviamente, però, niente di tutto questo si rifletteva, direttamente, nei pacati, ancorché serrati, ragionamenti del Governatore. Il quale, però, si era assegnato un compito non facile, né semplice. Quasi senza parere, e senza fare proclami o dichiarazioni altisonanti, Visco, fedele allo stile compassato dei suoi predecessori, ha infatti rovesciato quella che oggi viene definita come la “narrativa” prevalente. Insomma, il modo di rappresentare le cose che, essendo a vario titolo proprio delle forze che oggi stanno al Governo del nostro Paese, viene non solo da loro proposto quotidianamente, ma viene poi riproposto altrettanto quotidianamente da gran parte dei mezzi di informazione. Una narrativa secondo cui l’Europa, o meglio, l’Unione europea, è, per il nostro Paese solo un vincolo o, peggio, un’occhiuta e algida autorità senza cuore che, da un lato, ci impone norme assurde, mentre, dall’altro, impedisce la nostra crescita. Mentre il nostro Paese, qualora recuperasse una piena sovranità, potrebbe conseguire splendidi risultati economici, abolendo povertà e infelicità.
Visco non è entrato minimamente in polemica con nessuna singola affermazione di questo o quel personaggio che si sia ritagliato qualche spazio sulla nostra attuale scena politica. Semplicemente, ha prima impostato e poi svolto un ragionamento assai diverso.
“L’economia italiana – ha dunque ricordato Visco – è profondamente integrata in quella europea.” Infatti, “il 60 per cento delle nostre importazioni proviene dagli altri paesi dell’Unione europea”, mentre “il 56 per cento delle esportazioni è a essi destinato”. Inoltre, “negli ultimi venti anni, anche per effetto dell’allargameto dell’Unione”, l’incidenza di tali esportazioni sul Pil “è aumentata di quasi 5 punti percentuali, al 18 per cento”, mentre in Italia “i due terzi degli investimenti esteri diretti e di portafoglio provengono dai paesi dell’Unione che, a loro volta, ricevono il 60 per cento di quelli italiani”.
Inoltre, “l’inflazione, vicina al 20 per cento all’inizio degli anni Ottanta e ancora intorno al 5 nella prima metà del decennio successivo, si è portata al 2 per cento nel biennio che ha preceduto l’introduzione dell’euro”, mentre “il più recente rischio di deflazione è stato scongiurato con le misure di politica monetaria messe in atto dal 2014”.
Ma c’è anche dell’altro: “La moneta unica ha reso duraturo l’abbattimento di una tassa occulta che riduceva il potere d’acquisto delle famiglie e costringeva il Paese a ricorrenti svalutazioni del tasso di cambio, con benefici temporanei per alcune imprese e costi per la collettività.” Inoltre, “grazie alla riduzione dei rischi di inflazione e di cambio, nonché alla possibilità di accedere a un mercato finanziario più ampio, i tassi di interesse sui titoli di Stato e quelli sui prestiti alle famiglie e alle imprese sono diminuiti nel percorso di avvicinamento all’euro”.
“Negli ultimi vent’anni”, quindi, “la debolezza della crescita dell’Italia non è dipesa né dall’unione europea né dall’euro”. Infatti, “quasi tutti gli altri stati membri hanno fatto meglio di noi”. E allora, qual è il problema? Il problema sta nel fatto che “quelli che oggi sono talvolta percepiti come costi dell’appartenenza all’area dell’euro sono, in realtà, il frutto del ritardo con cui il Paese ha reagito al cambiamento tecnologico e all’apertura dei mercati a livello globale”. In particolare, “la specializzazione produttiva in settori maturi ha esposto l’economia alla concorrenza di prezzo di quelli emergenti”. Inoltre, “le esitazioni nel processo di riduzione degli squilibri nei conti pubblici hanno compresso i margini per le politiche volte alla stabilizzazione macroeconomica e a innalzare durevolmente la crescita”.
E quindi? Quindi, “sta a noi maturare la consapevolezza dei problemi e affrontarli, anche con l’aiuto degli strumenti europei”. E ciò anche perché altri Paesi dell’unione si sono mostrati capaci di fare ciò “in modo efficace”.
Ora va anche detto che l’europeismo di Visco, reso già particolarmente esplicito nelle Considerazioni finali del 2016, come anche in quelle del 2017, non è un europeismo acritico. E ciò proprio perché è poggiato su una visione dei problemi economici molto strutturata e particolarmente vocata a cogliere le interrelazioni fra arretratezze domestiche e dinamiche globali.
Per Visco, quindi, nonostante che “la moneta unica abbia rappresentato un passo cruciale nel processo di integrazione europea”, va detto che “l’Unione economica e monetaria rimane una costruzione incompiuta”. Infatti, “ancor prima dell’introduzione dell’euro, erano state sottolineate le peculiari condizioni di una moneta senza Stato, la solitudine istituzionale della Bce, i problemi posti dalla mobilità imperfetta del lavoro e dei capitali”.
I limiti e i rischi connessi a un processo di unione lento e irrisolto si sono poi “materializzati con violenza inattesa con la crisi dei debiti sovrani”. E’ allora “emersa appieno l’inadeguatezza della governance economica dell’area dell’euro”, mentre “l’assenza di strumenti comuni per la gestione delle crisi delle economie nazionali le ha rese più lunghe e profonde e ha favorito fenomeni di contagio”. Ne risulta che, “ferma in mezzo al guado”, l’area dell’euro “è frenata nella crescita economica e rimane esposta a rischi finanziari”.
Ebbene, afferma orgogliosamente Visco, in una situazione così problematica “l’Italia ha la responsabilità di contribuire a sbloccare la situazione e le capacità per partecipare in maniera costruttiva alla definizione dei passaggi necessari a completare l’Unione economica e monetaria”. Infatti, “la sua voce sarà tanto più autorevole quanto più saprà procedere alla rimozione degli ostacoli strutturali al ritorno su un sentiero stabile di crescita e all’avvio di un percorso credibile di riduzione del peso del debito pubblico”.
Chiarito che l’Unione europea non è l’origine dei nostri problemi economici, ma ha anzi costituito una sponda cui è stato indispensabile appoggiarsi negli anni delle crisi economiche esplose a partire dal 2008 e dal 2011, Visco ha espresso parole di fiducia sulle potenzialità del nostro sistema-Paese. Il quale “può fare affidamento su punti di forza” che sono “in grado di sostenere l’attività” anche “in una congiuntura sfavorevole”. Infatti, “nel decennio in corso le esportazioni di beni hanno tenuto il passo della domanda estera, interrompendo la precedente lunga fase di calo della quota di mercato mondiale”. In particolare, “il saldo delle partite correnti è tornato positivo dal 2013”, mentre “l’avanzo si attesta ormai da tre anni intorno al 2,5 per cento del Pil”. E ciò anche perché “la capacità di competere sui mercati internazionali ha beneficiato della ricomposizione delle esportazioni verso produzioni meno esposte alle pressioni dei paesi emergenti e realizzate da imprese più efficienti e più grandi”.
“Nel complesso”, però, la nostra economia “fatica a riprendersi dalla doppia recessione”, tanto che “il prodotto è ancora di oltre 4 punti percentuali inferiore ai valori del 2007”, mentre “il tasso di occupazione, pur risalito al livello del 59 per cento registrato in quell’anno, è inferiore di 9 punti alla media dell’area dell’euro”. In questo contesto, risulta poi particolarmente grave il fatto che sia “aumentato il ritardo di sviluppo del Mezzogiorno, dove la disoccupazione supera il 18 per cento delle forze di lavoro, contro il 7 nel Centro-Nord”. Tanto che questo divario risulta di “4 punti più alto che nel 2007”.
Il fatto, secondo Visco, è che il nostro Paese non soffre solo di quel classico problema economico che, in termini keynesiani, potrebbe essere descritto come un problema di “bassa domanda aggregata”. Il che, a nostro avviso, significa che per Visco non basta far crescere gli investimenti. Ci sono anche, ahimè, dei problemi di arretratezza, di mancata modernizzazione che producono “un ambiente economico poco favorevole all’attività delle imprese, alla loro crescita, agli investimenti, al lavoro”
Ebbene, afferma Visco a questo punto del suo ragionamento, “limitarsi alla ricerca di un sollievo congiunturale mediante l’aumento del disavanzo pubblico può rivelarsi poco efficace, o addirittura controproducente”, qualora “determini un peggioramento delle condizioni finanziarie e della fiducia delle famiglie e delle imprese”. Infatti, ciò che non va sottovalutato è il rischio di una “espansione restrittiva”. Intendendo con ciò che “l’effetto espansivo di una manovra di bilancio può essere più che compensato – negativamente, s’intende – da quello restrittivo legato all’aumento del costo dei finanziamenti per lo Stato e l’economia”.
E qui, richiamando il più grave e profondo dei problemi che affliggono la nostra economia, Visco ammonisce: “l’elevato rapporto tra debito pubblico e Pil rimane un vincolo stringente”. Infatti, “rispetto al resto dell’area dell’euro da noi il costo del debito è più elevato, la crescita economica più bassa”. E, purtroppo, “quando il divario tra costo del debito e crescita economica è positivo, occorre un avanzo primario – cioè entrate superiori alle spese al netto di quelle per interessi – anche solo per stabilizzare il debito”. Tanto che “più ampio è il divario, maggiore è l’avanzo necessario”.
Al di là della necessità di dotare il nostro Paese di un insieme di scelte strategiche che lo aiutino a risolvere i problemi di arretratezza sopra richiamati, nel breve ciò che Visco ci pare auspichi da parte dei nostri governanti è, almeno, una buona dose di prudenza verbale.
Sapendo che “l’appartenenza all’Unione europea è fondamentale per tornare su un sentiero di sviluppo stabile”, secondo Visco dobbiamo dunque “partecipare con responsabilità, in modo costruttivo e senza pregiudizi” al “completamento dell’Unione”. Di più: “dobbiamo contribuire a rafforzarne le istituzioni, per il benessere di tutti”. E quindi “devono essere chiare le responsabilità da condividere, gli obiettivi da perseguire, gli strumenti da utilizzare, nella consapevolezza che anche per chi risparmia, investe e produce, come ha scritto un grande filosofo, ‘le parole sono azioni’ e che, come ha detto un grande scrittore, ‘nell’oscurità le parole pesano il doppio’”.
Il filosofo, si è poi saputo, è Ludwig Wittgenstein, mentre lo scrittore è Elias Canetti. Due citazioni culturalmente profonde. Ma anche un modo molto elegante per invitare i nostri governanti a non provocare i mercati finanziari, cioè quei signori che comprano i nostri Buoni del Tesoro, con dichiarazioni avventate e inutilmente allarmanti.
@Fernando_Liuzzi