1) Il libro di U. Romagnoli “Giuristi del lavoro del Novecento italiano” (ed. Ediesse, Roma, 2018) presenta e commenta le opere dei principali giuristi che hanno contribuito a formare il diritto del lavoro del secolo scorso. La raccolta è utile alla comunità dei giuristi, ma anche agli operatori economici e sociali per ricordare il complesso percorso di costituzione di questo settore del diritto e del welfare, che ha avuto un ruolo decisivo per l’assetto economico e sociale del ‘900.
È utile altresì per trarre suggerimenti e stimoli a guardare con consapevolezza e mente aperta a quello che ci aspetta nel prossimo futuro. Si possono trovare suggerimenti e stimoli, non insegnamenti da applicare direttamente perché il contesto su cui il nostro diritto e le politiche sociali devono intervenire nel secolo presente è radicalmente cambiato rispetto a quello considerato dagli autori del ‘900.
Il secolo passato è stato percorso da eventi drammatici, come le due guerre, da forti periodi di turbolenza sociale, da rotture istituzionali e anche di regime nei paesi interessati alle esperienze naziste e fascista.
Anche i contesti in cui agiscono i giuristi – non solo quelli del lavoro – son stati molto diversificati, come ricorda Romagnoli per il caso italiano: “Si va dalle codificazioni civili dell’Otto e Novecento, all’avvento della Costituzione repubblicana e allo Statuto dei lavoratori, fino al processo di destrutturazione del sistema delle regole del lavoro che comincia ad apparire sul finire degli anni Settanta” (pag. 19).
Nonostante questi eventi turbolenti e le diversità del secolo scorso, guardando in retrospettiva l’opera dei giuristi presentati nel libro essa presenta un quadro relativamente omogeneo. Gli elementi che accomunano questi autori sono anzitutto culturali, riflettono un patrimonio di conoscenze e di valori largamente condiviso.
La condivisione riguarda anzitutto alcuni elementi fondamentali del metodo giuridico, ma anche la consapevolezza che tale metodo e la “scientificità” che lo caratterizza non equivalgono a neutralità politica e sociale.
Tale consapevolezza è comune anche ai giuristi più rigorosamente rispettosi del metodo dogmatico, da Francesco Santoro Passarelli a Luigi Mengoni per citare due civilisti di razza che sono stati fondamentali per lo sviluppo del diritto del lavoro. Entrambi sono attenti alle regole della ermeneutica giuridica, ma consapevoli che le operazioni interpretative non sono mai neutre e sottendono ipotesi normative e di politica del diritto.
Un’altra consapevolezza comune a tali autori riguarda la necessità, avvertita soprattutto nell’affrontare la incandescente materia del lavoro, di superare il formalismo giuridico ricevuto dalla tradizione.
Tale superamento non è stato privo di controversie e di dispute accademiche accese. Ma, come sottolinea Gino Giugni che è un testimone e un protagonista autorevole della evoluzione del diritto del lavoro del 900, il superamento non è stato propriamente una rottura, piuttosto è frutto di un “rinnovamento nella continuità” operato spesso dalle stesse persone.
Molti di questi protagonisti hanno la percezione, per lo più consapevole, che possono svolgere un ruolo non semplicemente di descrizione dell’esistente, ma di mediazione intellettuale sia rispetto alla giurisprudenza con cui la dottrina lavoristica del 900 dialogherà intensamente, sia anche e soprattutto nei confronti delle organizzazioni rappresentative degli interessi, sindacati e associazioni datoriali, nonché nei confronti del potere istituzionale e politico.
Questo ruolo di mediazione, in senso lato sociale e politica, viene svolta in modo attivo ed esplicito da molti giuslavoristi, non solo da quelli che sono stati più inseriti attivi nella politica pubblica.
Anche per questo è particolarmente significativo, come sottolinea Romagnoli, che il diritto del lavoro del Novecento ha una forte impronta dottrinale e riceve anzi dalle elaborazioni dottrinali orientamenti spesso più efficaci e duraturi di quelli provenienti dal legislatore.
L’autore sottolinea, citando Gerard Lyon Caen, che il diritto del lavoro del 900 si caratterizza come “un diritto operaio senza operaismo”. Il rilievo mi sembra condivisibile. Credo invece meno appropriata l’attributo che viene riferito allo stesso diritto del lavoro come “un diritto borghese”. O meglio, penso che tale osservazione vada qualificata. Certo la cultura dei giuslavoristi ha per lo più una ascendenza borghese, ma tale ascendenza si riferisce come matrice ideale alla componente liberal-democratica.
Inoltre l’attività di mediazione sociale di questi giuristi e i loro contatti spesso intensi con le organizzazioni sociali e con la opinione pubblica hanno esposto la gran parte di loro a forti sollecitazioni da parte del mondo del lavoro e delle organizzazioni rappresentative, in particolare del movimento operaio. E le loro opere testimoniano come tali sollecitazioni non siano rimaste senza risposta.
Per gli stessi motivi non credo sia il caso di sottolineare troppo la autoreferenzialità di quello che Romagnoli definisce lo star system dei giuslavoristi.
2) Il capitale culturale omogeneo di questi autori e la condivisione di alcune operazioni interpretative fondamentali non sono senza importanza nello spiegare l’influenza dei giuslavoristi sul diritto del lavoro del 900.
Ma il successo delle operazioni del passato non è una garanzia per il futuro, perché come sottolinea l’autore il futuro del diritto del lavoro non può più essere quello di una volta. Di questo tutti noi dobbiamo essere consapevoli e prendere atto, per non essere dipendenti dal passato e per utilizzarlo al fine non di ripeterlo ma di trarre stimoli alla comprensione del nuovo contesto.
Anche all’inizio del secolo scorso i giuristi segnalavano incertezze e disagi, come traspare nei loro scritti. Ma allora essi si appoggiavano su una cultura borghese sicura di sé, su un capitalismo nazionale in ascesa, su una economia relativamente stabile; e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale su una classe operaia centrale ed essa stessa in ascesa.
Proprio per questi caratteri strutturali anche le categorie giuridiche potevano configurarsi come inequivoche e relativamente stabilità cominciare dalla categoria principe della subordinazione.
E il diritto del lavoro si poteva costruire sulle due pietre angolari del contratto individuale di lavoro a tempo indeterminato e del contratto collettivo nazionale come fonte regolatrice legittimata dagli Stati nazionali.
Alla fine del secolo entrambi questi caratteri della nostra materia sono messi a rischio o sono definitivamente superati; perché sono cambiate non solo le basi materiali su cui si reggevano, ma anche perché sono modificati gli ambiti geografici e geopolitici su cui la regolazione opera. Tali ambiti si sono estesi dallo Stato nazionale, su cui il diritto del Novecento si è formato e da cui è stato sostenuto, verso i territori della globalizzazione, che sono inesplorati dal diritto non solo del lavoro.
Questa grande trasformazione, come è stata chiamata, impone di “pensare diversamente”, ma non necessariamente di ricominciare da zero. Ci chiede, come giustamente sottolinea Romagnoli, di essere “meditabondi ma non rinunciatari”; perché non è detto che il diritto del lavoro subisca la stessa sorte del 900, che è un secolo passato. Esso può ancora seguire e promuovere il cambiamento, a condizione che sappia interpretarlo e orientarlo.
Le sorti di questo ambito del diritto non sono determinate una volta per tutte, come non è stata deterministica la storia della industrializzazione passata e come può non essere la storia futura della digitalizzazione.
Il capitalismo del secolo scorso era uniformante, a differenza di quello attuale che è divisivo, osserva Romagnoli. Ma quello del 900 non era certo pro labor più di quanto non sia quello attuale.
Nei confronti di entrambi queste varianti di capitalismo il diritto del lavoro è chiamato ad analizzarne i contenuti e a attrezzarsi per contestare il primato dei valori di cui essi sono portatore in nome di principi e valori diversi, se non opposti.
La cultura e la capacità creativa dei giuristi del lavoro e degli stessi giudici è ora messa in discussione; certamente da “un legislatore talora caotico e destrutturante” – come nota Romagnoli – ma soprattutto dalla diversità dei contesti in cui tutti gli operatori sociali si trovano ad agire, come nei materiali e nelle strutture su cui il diritto del lavoro deve intervenire.
Gli elementi di discontinuità sembrano prevalere rispetto a quelli di continuità col passato, sotto l’impatto di fattori dirompenti quali la globalizzazione e le tecnologie digitali
Non a caso le previsioni dei giuristi circa il futuro del lavoro e della sua regolazione sono molto diverse tra di loro, segno anche questo di disorientamento. Oscillano da un pessimismo radicale a un moderato e meditabondo possibilismo; e in ogni caso segnalano più incertezze che direzioni di marcia.
3) Alcune ipotesi avanzate alla fine del libro di Romagnoli circa questo futuro meritano di essere considerate, anche perché non sono solo proprie di questo autore.
Romagnoli, riprendendo una osservazione di Massimo D’Antona (p.313), ritiene che sia da superare la considerazione esclusiva del tipo lavoro subordinato propria dei giuristi e del legislatore del 900. Altrimenti detto non si può considerare esclusivamente, come è stato nel 900, la specie lavoro subordinato dimenticando il genere cui esso appartiene e le varie specie in cui si articola, così tralasciando di dare attenzione alle diversità dei bisogni di tutela e di valorizzazione che esprimono.
Questi due autori danno l’indicazione tendenziale secondo cui occorrerebbe prefigurare regole comuni che vadano oltre il tipo lavoro subordinato per elaborare una serie di diritti, anzi “di beni e servizi corrispondenti nelle condizioni storicamente date, allo status di cittadinanza, indipendentemente tanto dall’attualità di un rapporto di lavoro subordinato quanto dalla tipologia delle fonti istitutive dei rapporti mediante i quali avviene la integrazione del lavoro nella attività economica indipendentemente inoltre dalla stessa occupabilità”. Come sintetizza Romagnoli il diritto del lavoro del XXI secolo dovrebbe considerare non più solo la cittadinanza industriale per riscoprire la cittadinanza industriosa (pg. 320).
Tale indicazione coglie sicuramente la necessità di ampliare l’ambito dei diritti sociali e del lavoro, comprese le prestazioni del welfare, in direzione universalistica e oltre i confini tradizionali.
In realtà i nostri ordinamenti, non solo quello italiano, si sono già incamminati su questa strada, per cui la regolazione del lavoro, una volta compatta, si è diversificata per iniziativa sia della legge sia dei contratti collettivi così da tener conto della diversità dei lavori. E ha portato non solo a variazioni interne ai singoli tipi di rapporti rompendone la unità, ma anche a una osmosi fra tipi diversi.
Tale diversificazione di discipline si è realizzata con tecniche diverse: dalla moltiplicazione dei tipi e sottotipi oltre gli storici contratti speciali, alla delega ai contratti collettivi del potere di variare le discipline del lavoro subordinato oltre gli ambiti tradizionali del tipo, fino da ultimo all’allargamento delle maglie regolative in particolare del lavoro agile per lasciare spazio all’ autonomi privata. [1]
Si tratta di interventi di distribuzione delle tutele ancora approssimativi e incerti, a conferma della difficoltà di inserire le nuove realtà del lavoro in schemi normativi definiti. Tale incertezza si riscontra anche nelle varie proposte di Statuto dei lavori, pur sostenute da obiettivi di sistemazione invero talora illuministi. L’incertezza risulta accresciuta via via che la regolazione proposta si allontana dalle forme di lavoro espressione degli assetti produttivi tradizionali, per affrontare la definizione delle regole appropriate alle molteplici forme di lavoro atipico e variamente autonomo, fino da ultimo a confrontarsi con i nuovi lavori della gig economy operati su piattaforma.
La difficoltà non è di dettaglio. Risiede anzitutto nel ricercare criteri socialmente e giuridicamente affidabili per guidare la modulazione di tutele, soprattutto per rispondere ai bisogni diversificati dei nuovi lavoratori. E’ però significativo che anche il cerchio più ampio delle regole prospettate dalle varie proposte prevede normative di tutela e promozionali caratterizzate da tratti giuslavoristi, pure se intesi in senso ampio perché non legati a specifici tipi di rapporti di lavoro, ma estesi a ogni Statuto professionale.
Rimane cioè la distinzione, anche se meno netta del passato, di queste regole e delle relative prestazioni rispetto alle regole e alle prestazioni del welfare assistenziale riferite ai cittadini poveri e socialmente deboli. Analogamente i contenuti di questo diritto del lavoro allargato si distinguono dai diritti fondamentali dei cittadini e della persona, quelli tradizionali in primis: il principio di eguaglianza, come quelli di seconda generazione riguardanti la tutela della privacy, dell’ambiente, della bioetica. Del resto alcuni di questi principi come quello di parità si sono estesi al di là dei rapporti di lavoro ad ambiti del tutto diversi come le locazioni immobiliari, i trasporti, talora con tecniche applicative e sanzionatorie mutuate dal diritto del lavoro.
Il motivo di fondo di questi orientamenti è che non si è ritenuto di slegare questi diritti e queste prestazioni di welfare dai concreti rapporti di produzione e di lavoro pena perdere del tutto la loro specificità e senza esporsi al rischio di affogare nel mare magnum di un nuovo assistenzialismo pubblico, esso stesso peraltro minacciato dalle trasformazioni dell’economia e dalla globalizzazione.[2]
Questo dei confini e dei contenuti del nuovo diritto del lavoro rappresenta una delle principali sfide attuali al nostro mestiere di giuristi, ma anche alla riflessione di tutti i cittadini interessati alle condizioni di vita e di benessere delle generazioni future
4) Affrontare questa sfida non bastano iniziative di singoli. Occorre l’impegno di un’intelligenza collettiva di giuristi, operatori e intellettuali capaci di interrogarsi sulla nuova realtà in rapporto con le forme espressive e organizzative dei diversi tipi di lavoro.
Lo stato delle riflessioni offre pur in un contesto di incertezza alcune piste di ricerca che meritano di essere affrontate con priorità. Con la convinzione che nonostante la radicalità dei cambiamenti introdotti nel mondo del lavoro e delle imprese dalla globalizzazione e dalle nuove tecnologie digitali, l’impatto di questi fattori non è predeterminato. Può essere influenzato dalle scelte delle istituzioni e degli attori pubblici e privati che operano nei vari ambiti.
Nei mercati di lavoro, che nel futuro si presentano caratterizzati da alta variabilità, la sicurezza e la stabilità che costituivano beni fondamentali per i lavoratori del 900 non è più garantita.
Le politiche che l’Europa ha promosso da vent’anni per conciliare flessibilità e sicurezze hanno avuto diverse applicazioni nei vari stati. Hanno ottenuto risultati solo in parte soddisfacenti anche negli ordinamenti più attrezzati con strumenti di sostegno nel mercato del lavoro in grado di compensare le flessibilità dei sistemi produttivi e del lavoro con effettive sicurezze sul mercato del lavoro.
In realtà gli strumenti della flexicurity sono utili a realizzare una regolazione dei rischi di mercato atta a prolungare la protezione dei lavoratori oltre la fine del rapporto. Ma presi a sé stanti, anche nelle versioni meglio organizzate, permettono di realizzare solo una buona gestione dell’esistente e sono insufficienti a realizzare un miglioramento dell’occupabilità e soprattutto dell’occupazione.
Nel contesto attuale di crisi e di forte turbolenza dei mercati serve una risposta non solo difensiva. Questa presuppone che tutti gli strumenti di regolazione interni ed esterni al rapporto di lavoro e di promozione della sicurezza nelle transizioni siano finalizzati all’obiettivo di promuovere la buona occupazione nell’accezione indicata dalla Decent Work Agenda dell’OIL.
Tale obiettivo deve orientare le strategie di tutti gli attori coinvolti: dalle imprese, alle organizzazioni sindacali, alle istituzioni pubbliche. Per altro verso impone che queste strategie siano non solo coerenti fra loro e col contesto, ma vengano sostenute da politiche economiche e sociali atte a promuovere le condizioni della crescita e lo sviluppo delle capacità personali necessarie per perseguire effettivamente il risultato.
A questo ampliamento di strumenti e di visione fanno riferimento le riflessioni critiche di quegli autori che hanno sottolineato la necessità di allargare gli orizzonti della flexicurity in una visione delle politiche del lavoro finalizzata alla promozione delle capacità e dello sviluppo umano.
Più ingenerale le strategie di conciliazione fra flessibilità e sicurezza non possono reggersi se non sono accompagnate da politiche economiche che non solo promuovano le condizioni generali di una crescita sostenibile, ma che le riorientino a migliorare le condizioni di accesso alle opportunità di lavoro nelle varie forme, vecchie e nuove.
La promozione della occupazione, nonostante le dichiarazioni sulla sua priorità, non è stata un obiettivo centrale della politica pubblica; quasi per una acquiescenza all’idea che la piena occupazione fosse un portato automatico della crescita economica, essa stessa ritenuta sostenibile dalle sole forze del mercato.
5) L’ obiettivo della piena occupazione e del decent work oggi si deve misurare con l’impatto delle nuove tecnologie specie digitali sul lavoro e sull’impresa.
Probabilmente sono esagerate le stime che annunciano a breve la distruzione di maggior parte dei lavori tradizionali. Ma l’impatto è destinato a crescere. I lavori su piattaforma, quelli della Gig Economy che sono un esempio estremo di lavoro “any time any where”, sono già esplosi in tutto il mondo. In ogni caso l’incidenza delle innovazioni digitali sull’occupazioni è destinata a crescere soprattutto in lavori tradizionali ripetitivi.
È significativo che a minaccia della rivoluzione digitale per il lavoro ha riaperto in Europa il dibattito non solo sulla flessibilità degli orari, ma sulla loro riduzione. Il recente contratto dei metalmeccanici tedeschi ha riconosciuto il diritto dei lavoratori di ridurre (per due anni) l’orario settimanale a 28 ore (con parziale riduzione del salario) con il diritto a ritornare all’orario normale (di 35 ore).
Al di là delle dimensioni complessive dell’occupazione, le forme e la qualità del lavoro saranno investite da un cambiamento senza precedenti che riguarderà soprattutto lavori ripetitivi portando a una polarizzazione delle posizioni di lavoro[3] carpetta, OECD Employment Outlook 2016). Il cambiamento è così profondo che sta manifestando la inadeguatezza non solo delle regole tradizionali ma delle stesse categorie fondative del diritto del lavoro, a cominciare da quella di lavoro subordinato. Non si tratta solo di dubbi espressi da giuristi teorici, ma da incertezze che pervadono il legislatore, le parti sociali e le stesse decisioni della magistratura.
Le trasformazioni del mondo del futuro richiedono non solo una rimodulazione delle tutele, per tutti i lavori secondo i principi della Decent Work Agenda dell’OIL, ma più in profondità regole nuove riguardanti i rapporti fra le persone che lavorano e le macchine intelligenti che influiranno sempre più sulla organizzazione del lavoro umano.
Anche qui le innovazioni richieste nelle regole dei lavori all’interno delle imprese digitali andranno inserite in un quadro di politiche pubbliche e sindacali che sappiano orientare l’evoluzione delle tecnologie e delle piattaforme digitali, sempre più influenti sulla domanda e offerta di lavoro.
La cura dei rapporti con le macchine è un punto critico del futuro dei lavori e degli uomini che lavoravano; perché, come si è osservato, la evoluzione del digitale non riguarda solo gli strumenti del lavoro e dell’impresa, ma influisce sullo stesso modo di pensare delle persone. [4]
Anche per questo le regole e le politiche del lavoro dovranno occuparsi di sostenere e rafforzare le capacità delle persone nel corso della vita lavorativa nei confronti della nuova economia e delle nuove tecnologie. L’empowerement delle persone in questo contesto sarà essenziale per evitare che il dominio delle tecnologie, oltre che dei mercati, svuoti dal di dentro diritti e tutele.
6) L’alimento principale di tale empowerement è oggi più che mai la formazione continua, a partire dalla prima infanzia, non è solo uno strumento indispensabile contro l’obsolescenza professionale e per fronteggiare il rapido cambiamento dei sistemi produttivi e del lavoro. È un elemento decisivo per lo sviluppo delle capacità personali necessarie a orientarsi nella complessità delle relazioni economiche e sociali, nonché per cogliere le opportunità delle nuove tecnologie e per partecipare con consapevolezza alle vicende aziendali e sociali.
L’acquisizione e il mantenimento delle competenze in un contesto così mutevole non possono essere un sentiero fisso ma un continuum adattabile. Per questo motivo la formazione non può essere inquadrata in strutture rigide e statiche, ma va organizzata in modo flessibile in stretta collaborazione fra imprese e centri formativi, e deve essere capace di comprendere anche percorsi di educazione al di fuori del lavoro.
Per lo stesso motivo l’accesso ai vari interventi formativi, come l’impiego delle competenze acquisiste, devono essere lasciati alla scelta degli individui fruitori, dotandoli di strumenti adeguati come quelli previsti dalla normativa francese sul conto personale di attività.
I rapporti di lavoro devono diventare essi stessi veicoli di formazione professionale e personale continua. Come si è osservato, il lavoro del futuro comprenderà sia l’atto di lavorare sia il processo di apprendimento necessario per mantenere e accrescere le capacità di operare utilmente nel mondo del lavoro.
E gli investimenti in questo tipo di formazione saranno tanto più proficui per le persone e per le imprese, in quanto siano inseriti in percorsi partecipativi condivisi, attuati anche “tramite piattaforme cooperative”. La ricerca di nuove forme partecipative si può configurare come l’unica alternativa credibile alla parcellizzazione che può essere indotta da nuove forme di taylorismo digitale.[5]
Il lavoro così arricchito di formazione e di partecipazione è in grado di produrre non solo beni materiali, ma anche conoscenza e valore culturale. Se questo è vero, il lavoro va remunerato non solo con le forme retributive tradizionali, incluse quelle legate ai risultati di produttività e redditività, ma anche con forme di human capital gains. [6]
La globalizzazione costituisce una trasformazione non meno disruptive delle tecnologie digitali per una materia come la nostra costruita per un secolo su basi nazionali. Il suo oggetto si sta modificando sotto i nostri oggi ad opera della crescente interdipendenza non solo fra imprese e istituzioni finanziarie di diversi paesi, ma anche fra gli interi sistemi nazionali giuridici e sociali.
L’analisi e la pratica comparata diventano essenziali per la comprensione e per gli stessi orientamenti degli attori sociali e dei decisori pubblici nazionali. La vicinanza e la osmosi fra istituti di diversi ordinamenti cambiano la natura stessa della comparazione, cui viene chiesto non più solo di guardare con occhi distanti i vari sistemi giuridici e sociali, ma di scandagliare gli intrecci e le influenze ravvicinate fra questi sistemi e fra settori di essi che si moltiplicano giorno per giorno nella vita economica e sociale di tutti i paesi.[7]
In effetti le tendenze e le pressioni globali di varia origine influenzano sempre più le decisioni nazionali pubbliche e private. Penetrano all’interno delle imprese della loro organizzazione e dei metodi di gestione delle risorse umane, spesso senza consapevolezza e controllo degli attori nazionali.
Per questo la configurazione del futuro diritto del lavoro sarà sempre più sovranazionale e dipenderà da noi se essa avverrà con o senza la partecipazione degli attori nazionali, giuristi compresi.
Il contributo dei giuristi dei prossimi decenni andrà giudicato dalla loro capacita di orientare sulla base dei nostri valori e della nostra esperienza la futura regolazione multilivello dei rapporti di lavoro: le sue fonti, i suoi contenuti, i nuovi e vecchi diritti da garantire ai lavoratori mobili degli anni a venire.
Come dicevo all’inizio, si tratta di avviare un percorso con poche certezze e da intraprendere senza l’aiuto delle bussole costruite nel passato. Ma con la fiducia che il passato ci può alimentare, senza nostalgie per la fine di un’epoca, ma anche con la volontà di non farci travolgere dal futuro.
Tiziano Treu
[1] Cfr. T. Treu, Rimedi, tutele e fattispecie: riflessioni a partire dai lavori della Gig Economy, Lav. Dir., 2017, p. 388 ss.
[2]Cfr. T. Treu, Il diritto del lavoro. Realtà e possibilità, ADL, 2000, p. 510 ss.
[3]S. Scarpetta, OECD Employment, Outlook, 2016.
[4] L. De Biase, Il lavoro del futuro, Codice Ed., Torino, 2018, p. 79.
[5] L. De Biase, Il lavoro del futuro, cit., p. 85 ep.90 ss.
[6] L. De Biase, Il lavoro del futuro, cit., p. 162.
[7]T. Treu, Introduzione, Frammentazione organizzativa del lavoro: rapporti individuali e collettivi, Atti delle Giornate di Studio di Diritto del Lavoro, Cassino 18-19 maggio 2017, in ADL, n.53, p. 5 ss.