Dalla Cgil è venuto oggi un allarme che parte dai 158 tavoli di crisi aperti presso il Ministero dello Sviluppo economico e si estende fino alla prospettiva di un possibile e grave ridimensionamento del profilo industriale del nostro Paese. E la cosa, se ci perdonate il bisticcio, è ancor più allarmante se si pensa che non stiamo parlando di un allarme lanciato all’esterno, nel corso di una battaglia politica, ma del frutto di una riflessione interna alla Confederazione di corso d’Italia.
L’occasione di questa riflessione è stata offerta da una riunione convocata sotto una denominazione che più sindacalese non si può: Coordinamento nazionale Cgil delle politiche industriali. Ma, sindacalese a parte, va detto subito che l’incontro, già nella sua parte iniziale, è stato animato dall’intervento di uno che di crisi industriali se ne intende: Giampiero Castano, ovvero l’uomo che per 11 anni, e cioè dal novembre 2007 al febbraio 2019, ha diretto, presso lo stesso Ministero dello sviluppo economico, l’Unità gestione vertenze, la struttura incaricata di gestire le crisi aziendali.
Per Castano, l’incontro odierno ha costituito anche l’occasione per un ritorno a una sede un tempo familiare. Per più di vent’anni, infatti, prima di fare il capo del personale in varie imprese del settore Ict, Castano è stato un dirigente della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici Cgil, prima in Lombardia e poi a livello nazionale.
Ebbene, dopo aver ripercorso la sua esperienza al Mise che, per uno scherzo del destino, ha coinciso con tutto l’arco della Grande crisi, a partire dal 2008, Castano ha sottolineato che ciò che più lo ha colpito è stato il fatto che, dentro la crisi, lo storico divario fra Nord e Sud sia tornato a crescere. In particolare, Castano ha ricordato che, secondo la Svimez, tale divario sta crescendo di anno in anno. Fra l’altro, ha osservato Castano, quando si dice che il nostro Pil cresce dello 0,qualcosa per cento, bisogna ricordarsi che simili cifre sono il frutto di una somma algebrica che comprende regioni dove il Pil è cresciuto ben sopra l’1%, fino al 2 o al 3%, e regioni dove è sceso rispetto all’anno precedente.
Castano ha quindi affermato che il trasferimento al Sud di ricchezza improduttiva, sotto la forma del cosiddetto reddito di cittadinanza, ovvero la via imboccata dall’attuale Governo, non è certo il modo più efficace per affrontare il problema. Che fare, invece? Castano è stato esplicito: “Le Regioni, in quanto tali, non sono in grado di invertire la rotta”. Quel che serve è una strategia dello Stato centrale, dotata di risorse pubbliche e volta ad attuare grandi progetti. Dopodiché, sempre per Castano, “le risorse si trovano. Più complicato definire i progetti”. Servono proposte qualificate, volte a mantenere sul territorio le competenze che ci sono, ovvero generazioni di giovani laureati che oggi tendono a lasciare il Sud per trasferirsi al Nord o, più probabilmente, all’estero.
L’altro problema sottolineato da Castano è stato quello della dimensione delle nostre maggiori imprese. Che, viste all’opera in Italia, sembrano grandi, ma nel mondo risultano invece assai più piccole. E che, dimensioni a parte, non riescono a diventare dei players internazionali. Il che fa sì che, anche nei settori più tipici del Bel Paese, dal food alla moda, le imprese italiane vengano sopravanzate dai campioni francesi tipo Lactalis nel settore alimentare, e dai gruppi creati, sempre a partire dalla Francia, da imprenditori quali Arnault (LVMH) e Pinault (Kering), per ciò che riguarda il lusso. Per non parlare, cambiando campo, dei problemi che affliggono il settore delle costruzioni, colpito da crisi particolarmente aspre.
Il tema del Sud, peraltro, era già stato richiamato, in apertura della mattinata, da Enrico Miceli, neo-segretario confederale della Cgil, che, nelle parole introduttive della riunione, aveva sostenuto che è ormai tempo di capovolgere un paradigma non più valido. Non si può più dire, cioè, che il Mezzogiorno sia una grande area con dei punti di crisi. Bisogna dire che è una grande area di crisi con dei punti di normalità. Un concetto, questo, che lo stesso Miceli ha poi ripreso nelle ultime battute della riunione.
Tre le cifre da cui l’incontro odierno ha preso le mosse: i già ricordati 158 tavoli di crisi formalmente aperti presso il Mise. E che, nei prossimi giorni, potrebbero facilmente salire a 160, con l’aggiunta di un paio di altri noti gruppi industriali. Poi, a livello territoriale, le 15 aree di crisi complessa. Infine, i 23 gruppi industriali in Amministrazione straordinaria. Insomma, la crisi, specie nei suoi aspetti industriali, è tutt’altro che finita. E ciò è molto grave per un paese come il nostro che ha fondato la sua capacità di produrre ricchezza proprio sull’industria manifatturiera.
La cornice generale in cui tale crisi si inserisce è stata tracciata, nella relazione introduttiva, da Vincenzo Colla, uno dei due Vicesegretari generali della Cgil. Che è partito dall’analisi di una fase della globalizzazione, quella che ha prodotto inattesi risultati politici: dalla vittoria dei pro Brexit nel referendum britannico del 2016, alla vittoria di Trump nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, all’ondata sovranista che ha colpito l’Europa. Un quadro politico sfavorevole per un paese come l’Italia che, essendo un paese trasformatore, molto proiettato all’esportazione dei prodotti del proprio sistema manifatturiero, ha bisogno di “stare in mezzo agli altri” più che di lanciare proclami del tipo “padroni a casa nostra”.
A questo quadro politico di taglio internazionale, Colla ha poi aggiunto un’analisi economica interna, in cui è stato possibile riscontrare diversi punti di contatto con le analisi sviluppate dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, e puntualmente contenute nelle Considerazioni finali svolte in occasione delle più recenti Assemblee annuali.
Quattro i criteri che, per Colla, consentono di individuare la debolezza delle imprese italiane sugli attuali scenari globali. Poche sono quelle internazionalizzate in misura sufficiente. Per converso, molte sono sottocapitalizzate, poco innovative e poco attente allo sviluppo del proprio capitale umano.
La grande maggioranza delle imprese, poi, non riesce neanche a porsi il problema di superare le piccole o piccolissime dimensioni che le caratterizzano.
A tutto questo va aggiunto il fatto che le nostre stesse imprese, grandi o piccole che siano, devono operare in un contesto nazionale marcato negativamente dalla cosiddetta trappola del debito. Con un Pil che, di anno in anno, rimane basso, non riuscendo a crescere più dello 0,2 – 0,5%, il debito pubblico è destinato a salire, schiacciando ulteriormente le eventuali possibilità di sviluppo. Per non parlare delle infrastrutture cronicamente insufficienti, da quelle per i trasporti alle reti per le telecomunicazioni, fondamentali in un’economia sempre più digitalizzata.
Gli esiti di tutto ciò sono potenzialmente drammatici. Fra gli altri interventi, Gianni Venturi, segretario nazionale della Fiom, ha ricordato che da almeno 5 anni, nel nostro Paese, non si produce più alluminio primario. E ciò nonostante che ci siano circa 75.000 imprese che lavorano usando l’alluminio come materia prima.
Peggio: rischiamo di non avere più “un’industria nazionale dell’acciaio”, ovvero quella che ha costituito a lungo uno dei punti forti del nostro sistema industriale. E ciò proprio perché l’acciaio è, a sua volta, la “materia prima” (in realtà una materia prima “seconda”) fondamentale per gran parte della nostra industria manifatturiera, dall’automotive agli elettrodomestici, dalle costruzioni navali all’aerospazio. (E qui, ha ricordato Colla, la qualità del dibattito pubblico sulle vicende dell’Ilva, ora di ArcelorMittal, è stata così bassa da “mettere i brividi”.)
Quanto all’auto propriamente detta, produciamo ormai non solo meno autovetture della Spagna, ma, addirittura, meno di un terzo delle auto prodotte nella penisola iberica: nel 2019, con ogni probabilità, ci fermeremo a 500.000 “pezzi” contro più di 1.500.000.
Infine, gli elettrodomestici: un tempo nostro orgoglio nazionale, oggi oggetto di ricorrenti crisi.
Ma, nonostante tutto questo – ha osservato nel suo intervento Maurizio Landini, segretario generale della Cgil – in Italia non abbiamo ancora un luogo in cui discutere di questa situazione. Soprattutto, non abbiamo da tempo un luogo in cui il sindacato possa dare il suo fattivo contributo per impostare quella politica industriale che sarebbe necessaria al nostro Paese. E mentre le Regioni mostrano di non essere gli Enti dotati della dimensione giusta per affrontare problemi così rilevanti, il Governo si balocca con la tematica dell’autonomia differenziata.
Nei prossimi mesi, ha aggiunto Landini, potrebbero aprirsi nuove crisi aziendali. E tutto ciò non solo per responsabilità dell’attuale Governo, e di quelli precedenti, ma anche per evidenti responsabilità del sistema delle imprese che, da tempo, ha effettuato investimenti del tutto insufficienti.
Il meno che si possa dunque dire, per Landini, è che il sindacato dovrà riprendere, nei prossimi mesi, la mobilitazione unitaria avviata dal febbraio di quest’anno e portata poi avanti sia dalle maggiori categorie, sia dalle tre maggiori confederazioni. Ovvero dalla Cgil, dalla Cisl e dalla Uil, sulla base di piattaforme ampiamente condivise.
@Fernando_Liuzzi