“Ma tu lo conosci! Come si chiama?”. “E’ vero, il nome non ce l’ha mai detto. Che ne sacce? Era u’Capitano”. Settembre 1943, i nazisti lasciano Napoli cacciati dai cittadini e un gruppo di giovani, il mitra in spalla, saluta l’ufficiale che con la sua esperienza ha contribuito alla rivolta. E’ il finale del film sulle Quattro Giornate diretto da Nanni Loy. Lui, il militare, un sempre intenso Gian Maria Volonté, si asciuga il sudore e scompare, con indosso la divisa alla quale ha ridato l’onore e la dignità imbrattati dalla folle avventura fascista. “Dove siete stato?”, gli avevano chiesto sospettosi quando era apparso all’improvviso su una barricata. E lui, mostrando con rabbia e dolore la mano persa durante una battaglia,: “In Yugoslavia, in Albania, in Russia. E non certo per gusto mio”.
Potrà sembrare peregrino, bizzarre suggestioni provocate dall’intensa calura, eppure la vicenda di Carola Rackete ha anche il potere di richiamare alla mente quelle immagini. Il dodicenne Gennaro Capuozzo ucciso mentre tenta di gettare una bomba contro un carro armato. E gli uomini e le donne che escono dai loro rifugi improvvisati e trovano nel suo struggente sacrificio il coraggio per sfidare la violenza degli occupanti. “Oggi siamo tutti giganti”, gridano. Pronti a sacrificare la vita in nome della libertà e della giustizia.
Paragoni impossibili, strumentali forzature, inaccettabili accostamenti. Obiezioni ovvie, scontate. Certo, quello che è accaduto nel porto di Lampedusa non ha nulla a che fare con la ribellione partenopea. Non siamo in guerra, non siamo invasi, non siamo sotto una dittatura. Viviamo in piena democrazia e abbiamo un governo voluto e apprezzato dalla maggioranza degli italiani. Eppure lo sguardo intenso e fiero della giovane capitana ricorda quello di Volonté, u’ capitano, quando decide di battersi contro i nazisti. Una determinazione dolce e inflessibile, radicata nella propria coscienza, una scelta più istintiva che ragionata: metto in gioco tutta la mia esistenza per salvare la vita degli altri.
L’hanno insultata, offesa, derisa. “E’ una criminale, la vorrei in carcere”, ha sentenziato spavaldo e sprezzante Matteo Salvini. Secondo i suoi sostenitori è lui il capitano ma più che eroica guida somiglia alla boriosa maschera di un personaggio della commedia dell’arte. Come può essere un delinquente chi soccorre i naufraghi? “Bandito”, era la scritta che veniva attaccata come tremendo monito sui corpi martoriati dei partigiani. E allora, forse, difendere la dignità e l’uguaglianza costituisce ormai una nuova forma di resistenza. Resistenza contro quelle leggi che, come il decreto sicurezza, violano i principi costituzionali e feriscono i valori morali dell’intera umanità. Tendere la mano a chi sta affogando e condurlo al sicuro non è un reato ma un gesto di generosa e ineludibile pietà. La pensa cosi Alessandra Vella, la giudice per le indagini preliminare di Agrigento, che ha mandato libera la nostra eroina. E subito è entrata anche lei nella lista di proscrizione del Rodomonte che tuona dal Viminale.
Un giurista insigne come Gustavo Zagrebelsky ha invocato da tempo la disobbedienza civile. Sta diventando un obbligo, anche se il cammino sarà lungo. Ben più di quattro giornate.
Marco Cianca