Marchionne aveva ragione. Già nel 2008, mentre esplodeva la crisi economica globale indotta da quella dei mutui subprime, aveva capito che il futuro dell’industria dell’auto sarebbe passato necessariamente da una forte riduzione del numero delle case costruttrici – massimo sei, diceva – nonché da una consistente crescita dimensionale di quelle destinate alla sopravvivenza. Previsione da cui ricavava la conseguenza che anche la Fiat, di cui era a capo da quattro anni, avrebbe dovuto cercare di crescere, se voleva entrare nel novero delle sopravvissute.
Marchionne, all’epoca, era un novellino del mondo dell’auto. Ma forse, proprio il fatto di essere l’ultimo arrivato gli consentiva di guardare a quel mondo con un occhio ancora esterno, e dunque più fresco, di quello di chi si era abituato agli usi e costumi in esso vigenti.
Per essere precisi, le più importanti esperienze professionali antecedenti al suo arrivo alla Fiat, Marchionne le aveva fatte nell’industria dell’alluminio, che era, di gran lunga, il settore più concentrato al mondo.
Senza essersi dunque ancora impratichito dei problemi tecnologici connessi alla produzione delle quattro ruote, Marchionne vide che c’era qualcosa di strano, nel mondo dell’auto. Un qualcosa di strano che lui concettualizzò come “spreco di capitale”. Nel senso che ognuno dei costruttori esistenti doveva spendere troppi soldi, rispetto a quelli che aveva, e poteva ragionevolmente avere, per progettare e realizzare i prototipi delle piattaforme che gli sarebbero poi servite per progettare e realizzare i modelli che avrebbe mandato nei saloni dei concessionari.
Insomma, per restare sul mercato, doveva spendere troppi soldi in ricerca e sviluppo. Mentre la stessa cosa dovevano fare i suoi concorrenti. Rischiando tutti di restare schiacciati sotto montagne di debiti. Meglio, dunque, se il compito di sobbarcarsi questi investimenti, la cui taglia minima necessaria era comunque assai ingente, poteva essere assunto da case costruttrici più grandi, e anche parecchio più grandi, di quelle esistenti. Il che però implicava, come si è detto, che il loro numero diminuisse in modo significativo. Massimo sei.
Già, ma come si fa a far sì che la dimensione dei singoli costruttori cresca mentre il loro numero diminuisce? Semplice. Senza immaginare guerre feroci in cui i più grossi, per crescere, mangiano i più piccoli, basta che case di dimensioni anche simili fra loro si uniscano amorevolmente, creando soggetti più grossi.
Ed è proprio questo ciò che è successo in questi anni e sta ancora succedendo. Con l’acquisizione della “tedesca” Opel da parte di Psa, che è già il frutto della fusione delle francesi Peugeot e Citroen. Con la fusione delle coreane Kia e Hyundai. Con la semi-fusione delle giapponesi Nissan e Mitsubishi. Con la singolare alleanza fra la francese Renault e la citata coppia de facto Nissan-Mitsubishi. Nonché, fin dal 2009, con la fusione tra Fiat e Chrysler che ha dato vita al capolavoro di Marchionne: la Fca.
Vista la strada che gli appariva giusta, Marchionne cercò, infatti, di praticare subito l’obiettivo. Profittò della crisi dell’industria americana dell’auto e si comprò la più piccola delle tre grandi case costruttrici di Detroit: la Chrysler.
Semmai, verrebbe da chiedersi: perché nei nove anni che gli erano rimasti da vivere Marchionne non è riuscito a ripetere l’operazione Fiat-Chrysler trovando un partner per Fca?
La risposta, forse, è più semplice di quel che si possa credere. Il fatto è che nell’industria le cose vanno un po’ come in politica. Un conto sono le idee e la loro giustezza, altra cosa sono gli interessi. Perché quando uno ha il potere – si tratti del detentore di un pacchetto azionario o di un Governo – è difficile che lo molli solo perché sarebbe razionale passarlo a qualcun altro o, comunque, riconfigurarlo.
Oggi tutti i giornali spiegano, a partire dal bell’articolo di Paolo Griseri su Repubblica, che già in passato Fca e Psa si erano incontrate per esaminare ipotesi di fusione, ma che poi la cosa non andò in porto per l’opposizione di uno dei tre maggiori azionisti della stessa Psa, la famiglia Peugeot.
Verrebbe allora da chiedersi: perché ieri no e oggi sì? Forse perché, nei dieci anni che ci separano dal 2009, la questione tecnologica, rispetto all’industria dell’auto, è diventata ancor più importante. Starei per dire: di un’importanza drammatica. Non si tratta piu di progettare piattaforme su cui poi costruire, per parecchi anni, diversi modelli, ma di ripensare il prodotto auto, a partire dalla sostituzione del motore a scoppio con l’impiego di energia elettrica variamente accumulata. Tanto che ormai, nelle discussioni sul futuro dell’auto, o meglio sul suo presente, è invalsa l’espressione “transizione tecnologica”.
Ecco, per affrontare questa transizione sia Fca che Psa sono troppo piccole. E allora può darsi che, spinti dal bisogno, Elkann e Tavares riescano là dove altri, Marchionne ed Elkann compresi, hanno fallito. Forse, dunque, vedremo veramente, questa volta, la fusione di due case costruttrici fortemente, anche se diversamente, basate in Europa: Fca e Psa. Unite nella lotta per entrare nel novero delle sei case destinate a sopravvivere.
@Fernando_Liuzzi