“Se riparte il Sud, riparte l’Italia.” Lo ha detto oggi il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, intervenuto alla Camera, a fine mattinata, in occasione della presentazione del Rapporto Svimez 2019 sull’economia e la società del Mezzogiorno. Un concetto certo non originale, e tuttavia condivisibile, sul piano strettanente analitico. Poiché, visto che i tassi di sviluppo delle regioni meridionali sono non solo più bassi di quelli delle regioni del Centro-Nord, ma rischiano di essere nel prossimo futuro addirittura negativi, anche se leggermente negativi, è ovvio che vi sia qui lo spazio per realizzare senza eccessivi sforzi, almeno in teoria, una crescita più robusta. Ovvero una crescita che potrebbe dare un valido contribito a quella di tutto il Paese.
In teoria. Perché con quell’amara ironia che a volte è propria del procedere dei fatti, quando la cronaca si converte in storia, appena un paio d’ore dopo il discorso di Conte, una notizia drammatica si è abbattuta su qualsiasi speranza di ripresa economica del Sud e, a dire la verità, dell’Italia intera. Con un comunicato datato da Milano, ArcelorMittal ha infatti reso noto che “AM InvestCo Italy ha inviato in data odierna ai Commissari straordinari di Ilva SpA una comunicazione di recesso dal contratto per l’affitto e il successivo acquisto condizionato dei rami d’azienda di Ilva SpA e di alcune sue controllate”. Di recesso o, si precisa con adeguato linguaggio giuridico, “di risoluzione” dello stesso contratto.
Insomma, fuori dal legalese, ArcelorMittal restituisce le chiavi al padrone di casa, cioè ai Commissari di Ilva in Amministrazione straordinaria, saluta e se ne va. Il tutto, entro 30 giorni. E, a quanto si capisce, senza che AM InvestCo Italy, cioè la società costituita ad hoc da ArcelorMittal per acquisire l’Ilva, debba sborsare un solo euro di penale per il mancato acquisto. Infatti, nello stesso comunicato ArcelorMittal ricorda che il contratto prevedeva che “nel caso in cui un nuovo provvedimento legislativo incida sul piano ambientale dello stabilimento di Taranto in misura tale da rendere impossibile la sua gestione o l’attuazione del piano industriale, la Società ha il diritto contrattuale di recedere dallo stesso”.
E questo è il punto. Perché, procede implacabile il comunicato, il “Parlamento italiano ha eliminato”, con “effetto dal 3 novembre 2019”, la “protezione legale necessaria alla Società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così la comunicazione di recesso” emessa oggi dalla stessa Società.
Non solo. “I provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto”, aggiunge spietatamente il comunicato, “obbligano i Commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019 – termine che gli stessi Commissari hanno ritenuto impossibile da rispettare – pena lo spegnimento dell’Altoforno numero 2.”
Ora, sempre secondo l’azienda, le suddette prescrizioni “dovrebbero ragionevolmente e prudenzialmente essere applicate anche ad altri due altoforni dello stabilimento di Taranto”. Ma, ecco un secondo punto decisivo, tale spegnimento “renderebbe impossibile per la Società attuare il suo piano industriale, gestire lo stabilimento di Taranto e, in generale, eseguire il Contratto”. E quindi, come si è già visto, arrivederci, o meglio addio. E senza ringraziamenti.
Nelle ore concitate che hanno fatto seguito a questo annuncio drammatico, c’è stato chi si è aggrappato alla speranza che il comunicato di ArcelorMittal non fosse l’annuncio di un addio definitivo, ma una mossa tattica, ancorché drammatizzante, volta a ottenere da Governo e maggioranza il ripristino di quella “protezione legale” che, come si è visto, è considerata “necessaria” dalla stessa Società “per attuare il suo piano ambientale”. Così come, nei giorni scorsi, c’è stato chi ha tentato di leggere in modo positivo la sostituzione del primo incaricato delle operazioni italiane di ArcelorMittal, il belga Matthieu Jehl, con l’italianissima Lucia Morselli. Questi interpreti “ottimisti” del cambio al vertice di ArcelorMittal Italia, infatti, tendevano a mettere fra parentesi la fama di fierissima combattente di parte aziendale che circonda la Morselli negli ambienti sindacali, sottolineando, invece, che la stessa Morselli era stata a suo tempo ingaggiata da AcciaiItalia, ovvero dalla cordata – formata dall’italiana Arvedi e dagli indiani di Jindal – che aveva conteso, peraltro senza fortuna, in una gara internazionalea, ad AM InvestCo Italy la possibilità di acquisire l’Ilva in Amministrazione straordinaria. Quasi che questo recente legame, in un momento di difficoltà nelle relazioni fra ArcelorMittal e i poteri pubblici del nostro Paese, potesse lasciar intravedere l’ipotesi di un ritorno sulla scena tarantina della cordata risultata, all’epoca, soccombente.
Difficile crederlo. E ciò proprio per i motivi riassunti lucidamente, è non senza una notevole franchezza, dal comunicato da cui siamo partiti. In sostanza, infatti, la Società dice di essersi vista stretta, da un lato, da un Tribunale penale che, in nome della difesa di ambiente e salute, emette delle prescrizioni che, tecnicamente, non possono essere soddisfatte nei tempi rigidamente assegnati; e, dall’altra, da un potere politico che si mostra incapace di rispettare gli impegni presi.
Davanti alla più grande fabbrica del nostro Mezzogiorno – che, come ampiamente noto, è anche la più grande acciaieria d’Europa – si aprono interrogativi angosciosi. Chi avrà il coraggio di provare a salvarla, dopo che il più grande produttore di acciaio del mondo ha gettato la spugna?
@Fernando_Liuzzi