1. Santi e Pastore: una singolare coincidenza
Come accade di decennio in decennio, in occasione degli anniversari della loro scomparsa, le figure di Fernando Santi, importante sindacalista socialista della Cgil e di Giulio Pastore, padre fondatore della Cisl, si sono intrecciate frequentemente in questo autunno del 2019.
Il tutto è frutto di una coincidenza: sia Santi che Pastore sono nati nel 1902 e sono scomparsi, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, nel pieno dell’autunno caldo del 1969.
Entrambi ci consegnano biografie potenti che si sviluppano nei primi settant’anni del Novecento: entrambi hanno vissuto attivamente almeno un cinquantennio di storia italiana, attraversando il passaggio dallo stato liberale al Fascismo, alla Resistenza, alla costruzione e al consolidamento della democrazia repubblicana nel secondo dopoguerra.
Entrambi, infine, hanno vissuto, parallelamente, l’impegno sindacale e quello politico, aggiungerei anche quello associativo più in generale: Pastore nei vari ambiti del mondo cattolico, Santi in quello della cooperazione.
2. Riformismo e radicalismo rivoluzionario
Fernando Santi ci consegna una vita ricchissima, iniziata in una Parma che rimarrà sempre rilevante nel profilo culturale di un leader nazionale riconosciuto. Parma, come è noto, fu culla, nei primi anni del Novecento, del sindacalismo rivoluzionario, un contesto in cui i riformisti come Santi erano in forte minoranza.
Può essere utile soffermarsi, su alcune parole da lui pronunciate nel 1958, nel commemorare il celebre sciopero agrario del 1908 nel parmense: “il sindacalismo rivoluzionario era concezione mitica, eroica, epica delle lotte di classe, seducente se volete, ma concezione astratta, intellettualistica. (…) Più che l’adesione cosciente ai principi, era, più che altro, il segno della protesta esasperata e dell’insofferenza delle masse più sacrificate, dubbiose e sospettose dell’azione troppo lenta dell’ala riformista del movimento operaio”.
Egli riconosceva al radicalismo rivoluzionario il merito di aver spronato i riformisti a una maggiore decisione ed efficacia, ma non poteva non rapportarsi al risultato del fallimento dello sciopero che portò al fatto che: “molti scioperanti piuttosto che tornare alle vecchie condizioni preferirono emigrare”.
La visione di Santi non nasce da un aprioristico moderatismo nei fini e nei mezzi, ma dal realismo e dal senso di responsabilità. La lotta sindacale, ancor più di quella politica, infatti, non può piegarsi a logiche estetiche o avventuriere. Essa non può dimenticare, uso ancora le sue parole del 1958: che “il dovere del sindacato è soprattutto quello di realizzare, anche poco, quando non è possibile realizzare molto”.
3. Il ruolo generale del sindacato
Quello del ruolo del sindacato nel quadro sociale, economico e politico è un tema cruciale, del suo pensiero e della sua azione, in cui è possibile riflettere sulle sinergie e sull’intreccio dei diversi riformismi che hanno costruito il pluralismo sindacale italiano.
Sono ancora le parole di Santi che, con grande capacità di sintesi, ci aiutano nell’analisi.
Nel 1955 egli si cimentò in una riflessione sul sindacato in Italia in un testo cui contribuirono, tra gli altri, anche Di Vittorio e Pastore.
Una riflessione che mantiene aspetti ancora attuali e che può guidarci, ancora oggi, nella ricerca di un’unità di azione sindacale non teorica, ma fondata sulla realtà.
Scriveva Santi: “Più che scolastiche definizioni interessa riconoscere la funzione che esercita nel nostro paese il sindacato che si proponga di tutelare in modo compiuto ed efficace gli interessi dei lavoratori ad esso confidati”.
Il sindacalista emiliano insisteva sul legame diretto tra il tutelare in modo compiuto gli interessi dei lavoratori con il necessario compito del sindacato nell’esercitare una funzione di progresso tecnico, economico, sociale e culturale generali, oltre che di conquista e rafforzamento delle istituzioni democratiche.
Egli sintetizzò queste riflessioni con un concetto importante, quello del: “gradualismo democratico”, non fermandosi però al solo perimetro tradizionale dell’azione sindacale.
Il riformismo e il gradualismo democratico non sono, infatti, appiattimento sul presente, sull’esistente, accettazione dell’ordine costituito. Il sindacato, partendo dai luoghi di lavoro, non può, lo scriveva nel 1955, rinunciare ad intervenire nei differenti aspetti dell’economia nazionale, passando dal terreno della protesta e della denuncia a quello della realizzazione.
E’ in questo che si sviluppano i rapporti tra sindacato e politica: la politica del sindacato è quella degli interessi dei lavoratori, più il sindacato la attua più esso rafforza la propria autonomia dai partiti e dalle controparti.
4. L’unità dei riformismi contro il populismo
Sempre nel 1955, nel pieno di una forte divisione sindacale, Santi auspicava che si ritrovasse tra le confederazioni un “terreno di intesa” e che si attuasse uno sforzo unitario per arrestare, in quella particolare congiuntura, la decadenza dell’economia.
Lo strumento da utilizzare, per il sindacalista parmigiano, era quello di un programma minimo condiviso, non estemporaneo, ma progettuale. Un programma sindacale che potesse contribuire ad un passo avanti rispetto alle polemiche infuocate e, spesso, troppo elettoralistiche tra i partiti.
Proprio per questo, in funzione, diremmo oggi, “antipopulistica”, era fondamentale, per Santi, il pieno riconoscimento della funzione del sindacato e della sua autonomia, sia da parte delle imprese che da parte delle istituzioni.
“Se il sindacato non potesse svolgere la sua funzione – scriveva- il progresso economico e sociale subirebbe un duro colpo di arresto. In queste condizioni la lotta politica sindacale decadrebbe da civile competizione a rissa sociale. Un Alceste De Ambris redivivo tornerebbe ad additare ai braccianti parmensi la scatola dei cerini quale mezzo risolutivo nelle lotte contadine”.
Viviamo oggi in un profluvio di parole, a volte vane. Santi sapeva, invece, richiamare la spinta originaria e permanente dell’impegno al servizio del lavoro e della giustizia.
“Solo chi ha fame – affermò il vostro concittadino – apprezza il sapore del pane; solo chi ha sete di giustizia sa dare alla giustizia il suo vero volto, giusto e umano.”
5. L’esempio personale
Fernando Santi ha anche saputo essere un esempio di coerenza e coraggio. A partire da quando fu cacciato con violenza, nel 1921, dal congresso della Gioventù Socialista, dove i riformisti come lui rappresentavano la minoranza della minoranza o quando, molti anni dopo, rinunciò, per questioni di coscienza, al possibile incarico di Ministro del Lavoro. Non bisogna poi dimenticare il suo ruolo nella straordinaria e plurale esperienza degli Arditi del Popolo, argine alla violenza fascista che rese, per Italo Balbo e per le sue squadre nere, Parma più larga dell’Atlantico, trasformandola, in occasione delle barricate del 1922, in un luogo inespugnabile.
Egli si è impegnato con forza, senza rinunciare mai alle proprie convinzioni più profonde, a lavorare per unire, persuaso come era, magari anche grazie all’esperienza del 1922, che uomini e donne provenienti da differenti matrici potessero incontrarsi su un terreno comune: quello della libertà, della giustizia, della lotta per la pace.
6. L’unità sindacale e un lascito per l’oggi
E’ utile ricordare, ancora, l’approccio pragmatico e costante, mai ideologico, di Santi rispetto all’unità sindacale.
Pur condannando la scissione del 1948 egli affermò: “molto meglio che un lavoratore lasci la Cgil per andare in un’altra Confederazione, quella costituita da Pastore, piuttosto che si isoli in un corporativismo sterile e senza sbocchi politici”.
Fu la sua una riflessione e una concezione di grande attualità, l’idea, anche nei momenti più difficili, di un possibile ritorno a forme nuove di unità, senza alcun appiattimento delle differenze.
Già nel 1957 Santi intervenne a favore di un riavvicinamento tra Cisl e Cgil, sulla base anche del riconoscimento che fosse impropria per la Cisl la definizione di sindacato cattolico.
Ricordò Bruno Storti, nel 1979, che Santi così come non aveva mai voluto il sindacato socialista, non aveva mai concepito nemmeno il sindacato comunista o il sindacato cristiano.
Seppe delineare e perseguire con coerenza, nei limiti delle condizioni date, una visione e una prospettiva unitaria per i lavoratori, proprio partendo dai fondamenti e dalle ragioni dell’agire sindacale.
Santi è un punto di riferimento, anche per la sua cristallina e affascinante biografia, per tutto il movimento sindacale. Non si presta a un ricordo di parte.
Appartiene, quindi, alla storia popolare, ai lavoratori italiani. Tutto ciò grazie ad una vita fatta di azioni e di parole, di atti di coraggio e di rinunce, di chiarezza, come ho provato a dimostrare, pur senza alcuna pretesa di completezza, attraverso le sue diverse citazioni.
A cinquanta anni dalla morte commemoriamo un riformista emiliano che ha saputo spesso andare controcorrente, non per vezzo, ma per cambiare concretamente, anche se magari di pochi centimetri, il baricentro del mondo.
Fernando Santi è, in conclusione, un esempio sfidante anche per la Cisl.
Gli siamo grati e lo ricordiamo con rispetto e riconoscenza facendo nostra l’aspirazione di tutelare al meglio il lavoro anche con un rilancio dei rapporti unitari.
Non dobbiamo mai dimenticare, sia nei rapporti tra le confederazioni che in quelle con le imprese o con la politica, che ciò che sta alla base del nostro agire deve essere l’attenzione alle concrete condizioni delle persone che rappresentiamo.
Tutto questo, se vogliamo essere fedeli alla storia del sindacato riformista confederale italiano e a esempi lungimiranti come quelli di Fernando Santi e di Giulio Pastore, rapportandoci con pragmatismo visionario ad un perimetro del lavoro che si trasforma.
Un perimetro più largo, frastagliato, difficile. Un campo che ci sprona a contaminare la profondità delle radici alla necessaria curiosità di uno sguardo comune che diventa impegno concreto verso il futuro.
Francesco Lauria, Centro Studi Nazionale Cisl Firenze