Qualche sera fa a Ferrara, Piazza Castello era strapiena di giovani “sardine”. Dopo aver cantato insieme “Bella ciao”, uno degli organizzatori ha preso il microfono (un microfono che mi ha ricordato le prime manifestazioni studentesche di 50 anni fa dove era più importante esserci che farsi sentire…) e ha detto una frase che mi è rimasta impressa, riferita alla politica: “Costoro, invece che cercare nuove vie per la comunicazione, dovrebbero costruire nuove strade, nuove scuole, nuovi ospedali”. Nel senso che sono importanti le cose che si fanno davvero, non quanto si dice sui media e il consenso effimero che ne deriva. È un concetto che condivido fino in fondo. Quando la sera in televisione o su twitter qualche leader politico italiano parla del “green new deal” a ciascuno di noi verrebbe voglia di dire “oh, finalmente, era ora…”. Ma l’esperienza purtroppo ci insegna che in un tweet non c’è niente di “green” e che le cose si fermeranno agli annunci mediatici e nulla cambierà rispetto a prima. Rovesciando il ragionamento: chi perderebbe tempo a leggere i tweet di Trump se non temessimo quello che potrebbe fare il presidente degli Usa dopo aver scritto quelle rozze parole?
Quest’idea che nelle organizzazioni di massa (partiti e sindacati) il fare dovrebbe sempre prevalere sul comunicare è importante: ma non toglie significato al sistema della comunicazione, anzi lo fortifica. Altrimenti diventa un quotidiano misurarsi con lo spread del consenso personale, scambiandolo per una solida e partecipata condivisione. Per fare le cose c’è bisogno di impegno e tempi adeguati, diversi dall’istantaneità. Prima di tutto la volontà di ascolto, poi la capacità di costruire sintesi progettuali che tengano conto delle opinioni e delle competenze degli altri. Magari assieme a un’onesta volontà di verifica e aggiustamento. Questa sarebbe una rivoluzione necessaria nei sistemi di rappresentanza di massa (politici e sindacali che siano). Ma mi pare che non sia all’ordine del giorno. Del resto, temo sia un fatto di natura oltre che storico: più i leader sono e si sentono fragili, più temono il pluralismo e tendono ad accentrare a sé decisioni e controlli.
Veniamo al nostro piccolo. Il Diario del Lavoro ha parlato qualche giorno fa di “rivoluzione” in corso nel sistema della comunicazione della Cgil (anche un blog anonimo ha usato le stesse parole). Avendo partecipato ad alcune riunioni sul progetto della nuova comunicazione (affidato a una società esterna e, per quel che ho capito, estranea al mondo e alla cultura sindacale) e avendo letto tutti i documenti ufficiali al riguardo, faccio molta fatica a scorgere elementi “rivoluzionari” in quel che si sta realizzando. Forse, invece, un’involuzione, per quanto ammantata di modernismo. Concentrare su una sola persona (fosse anche un premio Nobel!) la direzione di un sistema che accorpa in sé uffici stampa, social media, un periodico cartaceo, un giornale on line, una radio, (un blog “indipendente” e anonimo?), una casa editrice, è il contrario della rivoluzione: il contrario dell’ascolto e della sintesi tra voci plurali. L’accentramento è una pretesa di restaurazione, piuttosto che una rivoluzione. La volontà di introdurre maggiore omologazione e controllo: in termini giuridici si direbbe “cordinamento”. Su cosa poi? C’erano degli elementi di anarchia nel sistema della comunicazione della Cgil che rendessero necessario l’istituzione di un “Politburo” o, peggio, l’invio di un commissario politico? C’era la necessità di aggiornare e riorganizzare le diverse funzioni, certo: anche di migliorarne l’efficienza economica. Ma non di costruire la “piramide” comunicativa con un solo controllore al comando che la Cgil vuole realizzare.
Nello specifico, quello che contesto al progetto “rivoluzionario” (e che, dal mio punto di vista, ne mina la credibilità) è l’aver insistito, malgrado le obiezioni, a considerare Ediesse (la storica casa editrice della Cgil) uno strumento di comunicazione e marketing paragonabile ai social. Ancor peggio: continuare a dire che d’ora in avanti si devono stampare solo libri “già pagati” (libri “sospesi”, si direbbe nei caffè napoletani) significa confondere una casa editrice con una tipografia. Non è un errore da poco per degli esperti di comunicazione e marketing (il fatto che fino ad ora abbiano lavorato gratis non è, in questo caso, un’attenuante).
Le case editrici usano tecnologie tradizionali (gli e-book non hanno sostituito i libri stampati in nessun paese del mondo!), tempi medio-lunghi di ideazione e realizzazione dei propri prodotti, necessità di promuoverli e sostenerli nel tempo e nello spazio, per trasferire contenuti culturali duraturi, non consenso istantaneo (tantomeno incasso preventivo). Tutte cose estranee alla logica della comunicazione e del marketing a campagne pubblicitarie. Forse è per questo che nei documenti ufficiali della Cgil sul “nuovo” sistema della comunicazione, a ben scavare, non si legge nulla di preciso sull’Ediesse, anzi: nulla di nulla. Se non la volontà di accentrarne il controllo. In spregio alle ricche professionalità e varie culture che vi lavorano. Che sia la Cgil a non riconoscere e valorizzare le competenze sul lavoro dei propri collaboratori è piuttosto grave. Ma questo è un altro discorso…
P.S. Tutta la mia solidarietà e i miei auguri, da ex direttore editoriale, ai lavoratori Ediesse: continuate a fare bei libri e cercate di resistere ai condizionamenti esterni!
Gaetano Sateriale