Com’è noto, nella generalità dei paesi più industrializzati il sistema previdenziale poggia su tre pilastri, il cui obiettivo è quello di assicurare un adeguato tasso di sostituzione, cioè un adeguato rapporto tra reddito da pensione e reddito da lavoro. Pur concorrendo al perseguimento di uno stesso obiettivo, questi tre pilastri si differenziano in misura notevole, tenuto conto che:
– il primo pilastro, di natura pubblica e a ripartizione, contempla il versamento di contributi obbligatori ad enti della PA e l’erogazione di un trattamento di base;
– il secondo pilastro, di natura privata e a capitalizzazione, si basa sui contributi versati ai fondi pensione (o ai piani individuali pensionistici) ed è volto a fornire un trattamento integrativo;
– il terzo pilastro poggia sulla sottoscrizione volontaria di prodotti finanziario-assicurativi quali, ad esempio, le polizze vita, le quote di fondi comuni di investimento, i piani individuali di risparmio e i buoni postali fruttiferi.
Per fronteggiare il rischio derivante dalla crescita della popolazione anziana in rapporto alla popolazione in età lavorativa, negli ultimi anni molti governi europei hanno varato riforme strutturali volte a diversificare le fonti di finanziamento dei trattamenti previdenziali. Tali riforme hanno mirato a ridurre il contributo degli schemi a ripartizione gestiti dagli enti pubblici e ad ampliare il contributo degli schemi a capitalizzazione gestiti dai fondi pensione. Istituiti a livello aziendale o settoriale, questi fondi esistono in tutti i paesi più industrializzati, sebbene in parecchi di essi il loro peso sia ancora troppo limitato per poter erogare una cospicua pensione in aggiunta a quella pubblica.
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Ma i benefici dei fondi pensione non si esauriscono nell’integrazione dei trattamenti di base – integrazione resa possibile dall’accesso a quegli investimenti che, per l’onerosità dell’impegno finanziario o per la difficoltà delle valutazioni tecniche, sarebbero preclusi ai singoli lavoratori. Ai benefici di natura previdenziale occorre infatti aggiungere quelli arrecati all’intera economia nazionale, tenuto conto che i fondi complementari:
– contribuiscono ad accrescere il livello di efficienza, solidità e stabilità del mercato dei capitali, investendo una quota rilevante del proprio portafoglio in attività fisse;
– favoriscono la raccolta del capitale di rischio da parte delle imprese, comprimendone in tal modo l’esposizione verso le fonti esterne di finanziamento (il cosiddetto “rapporto di leverage”);
– tendono a preservare la compagine sociale dal rischio di scalate ostili, grazie all’ingente volume di investimenti a medio-lungo termine;
– sostengono lo sviluppo dei settori ad alta tecnologia e, più in generale, delle iniziative imprenditoriali con forte contenuto innovativo.
L’ampia dotazione di mezzi finanziari amministrati dai fondi consente di attuare una politica di diversificazione delle attività, ovvero di effettuare investimenti in comparti innovativi con rischio e rendimento elevati e, contemporaneamente, investimenti di tipo più tradizionale, ad esempio in titoli di Stato e azioni di grandi società.
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Secondo i dati di fonte OECD, nell’ultimo decennio le attività detenute in portafoglio dai fondi pensione italiani si sono accresciute sensibilmente, tanto da rappresentare nel 2018 il 7,6% del PIL[1]. Si tratta di un’incidenza leggermente superiore a quella rilevata nelle altre maggiori economie dell’area dell’euro (Germania, Francia e Spagna), ma abbondantemente inferiore a quella rilevata nei paesi europei in cui più sviluppato è il settore della previdenza complementare (Regno Unito, Olanda, Svizzera, Danimarca, Finlandia e Irlanda).
Se si prescinde dal tendenziale ristagno dei redditi da lavoro, sulla raccolta dei nostri fondi complementari pesano principalmente tre fattori, e cioè;
1) l’elevata incidenza delle contribuzioni obbligatorie;
2) i continui cambiamenti delle norme in materia di previdenza, che alimentano la sfiducia verso il sistema;
3) il fatto che molti lavoratori continuino a mantenere il TFR in azienda, malgrado il rendimento dei fondi pensione risulti, nel lungo periodo, superiore alla rivalutazione del TFR.
Per quanto concerne più in particolare il primo punto, si tenga presente che in Italia l’aliquota contributiva IVS si attesta, per i lavoratori dipendenti, su un valore (33%) superiore a quello rilevato in Spagna (28,3%), in Francia (27,5%), in Germania (18,6%) e in tutti gli altri paesi più industrializzati del globo[2].
Si tratta di un’incidenza che, unita ai bassi stipendi e alla diffusa precarietà dei lavoratori più giovani, contribuisce a spiegare il motivo per cui un ridotto numero di essi aderisce alle forme pensionistiche integrative. Come suffragato infatti dai dati di fonte Covip, nel 2018 neanche il 18% degli iscritti ai fondi pensione ha meno di 35 anni di età, appartenendo la parte più consistente degli iscritti alla classe intermedia (45-54 anni).
Eppure, sono proprio le generazioni più giovani quelle che dovrebbero essere più interessate alla previdenza complementare, perché la copertura garantita dalla pensione pubblica è destinata a ridursi sensibilmente negli anni a venire, scendendo sotto la soglia del 50% dell’ultima retribuzione nel 2070[3].
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Come si è già detto, i sistemi pubblici a ripartizione appaiono particolarmente esposti ai rischi derivanti dal processo d’invecchiamento, tenuto conto che il finanziamento delle prestazioni previdenziali ricade per intero sui lavoratori, ossia sul capitale umano. Trasferendo parte del finanziamento a un sistema a capitalizzazione, l’esposizione del regime pensionistico complessivo ai rischi demografici si riduce in misura notevole: semplicemente perché il capitale umano, una risorsa sempre più scarsa con l’invecchiamento della popolazione, viene sostituito dal capitale reale.
Il rafforzamento degli schemi a capitalizzazione deve avviarsi al più presto, prima che cominci ad accentuarsi il mutamento demografico, perché essi hanno bisogno di tempo per accumulare il montante necessario per pagare le pensioni.
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In tale contesto, è da valutare positivamente l’attenzione che la Nota di aggiornamento al DEF ha riservato al problema delle pensioni delle generazioni future. Anche se molti dubbi solleva lo strumento con cui s’intende rispondere a tale problema: e cioè la creazione presso l’INPS di un fondo di previdenza complementare per i giovani, alternativo alle gestioni esistenti. Fondo che, secondo le prime indicazioni, dovrebbe canalizzare i propri investimenti in Italia.
Per fare anzitutto un po’ di chiarezza su quest’ultimo punto, vale la pena rammentare che già oggi i titoli di Stato italiani rappresentano il principale asset nel portafoglio dei fondi pensione, con un’incidenza del 21,4% sul totale, seguiti da titoli del debito pubblico di altri paesi (17,1%), da titoli di capitale (16,4%), da quote di OICVM (11,9%), e così via.
Ma la principale criticità della proposta contenuta nella Nota di aggiornamento al DEF è la natura pubblica di questo fondo per i giovani. Nella generalità dei paesi OCSE, infatti, i fondi pensione sono il risultato di accordi collettivi (aziendali, categoriali, settoriali e territoriali), promossi spesso dalle rappresentanze sindacali e datoriali, hanno personalità giuridica di diritto privato e affidano la gestione delle risorse a intermediari bancari e assicurativi. Il ruolo del settore pubblico rimane per lo più circoscritto alla definizione delle regole per la formazione e amministrazione dei fondi nonché alla vigilanza sulla loro applicazione.
Se è vero che in alcuni paesi è previsto un trattamento minimo integrativo erogato dallo Stato alle pensioni di importo più contenuto (si pensi, ad esempio, alla cosiddetta New State Pension inglese[4]); è anche vero, però, che tale integrazione non ha niente a che vedere con la proposta in esame, trattandosi di una misura puramente assistenziale di sostegno del reddito.
I fondi pensione sono investitori istituzionali, assimilabili per certi versi ai fondi comuni di investimento, che operano in mercati con differenti profili di rischio-rendimento e che hanno quale finalità quella di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale. Se si considera ciò, si fa molta fatica ad immaginare uno spazio per un eventuale intervento (assistenziale) di un ente della Pubblica Amministrazione; intervento che potrebbe compromettere seriamente gli equilibri del settore, tanto più se realizzato ampliando ulteriormente i compiti della Cassa depositi e prestiti, sulla cui effettiva natura giuridica già sorgono parecchi dubbi.
Se veramente si vuole aiutare le giovani generazioni a costruire una pensione integrativa, bisogna solo agevolare il loro accesso agli strumenti esistenti, senza proporre soluzioni pasticciate e dirigistiche che rischiano di indebolire, anziché rafforzare, il secondo pilastro del nostro sistema previdenziale.
Si potrebbe ad esempio pensare di rendere obbligatoria l’adesione ai fondi pensione, riducendo gradualmente i contributi per la previdenza di base in favore di quella complementare, la quale assicura rendimenti molto più elevati rispetto alla previdenza di primo pilastro basati sul Pil nominale. O anche, sempre al fine di rendere più appetibili i piani integrativi, si potrebbero ampliare le clausole che consentono ai lavoratori di riscattare parte del capitale accumulato. Ma alla base di tutto rimane una spinta alla formazione della cultura previdenziale in particolare tra i giovani. Un obbligo da adempiere prima possibile poiché la previdenza (soddisfacente) è un diritto che si costruisce con il tempo e con la consapevolezza. Non sarà certamente più una aspettativa che si materializza da una certa età, come in parte è stato in passato.