La fragilità del nostro Servizio sanitario è ormai evidente. I 37 miliardi di tagli sui finanziamenti stanziati, il depauperamento delle risorse professionali, lo stress e la frustrazione degli operatori rimasti in servizio, la drammatica riduzione di posti letto ospedalieri, che ci hanno portato agli ultimi posti nella classificazione europea, hanno immiserito la qualità della nostra sanità già in situazioni ordinarie.
Di questo il Diario del lavoro ha lungamente parlato, ancora prima che si palesasse l’emergenza del coronavirus, nel convegno del giorno 4 febbraio organizzato dal giornale presso il Cnel su “Universalità e sostenibilità, la crisi del Servizio sanitario” e questi concetti sono stati nuovamente rilanciati ieri nell’articolo di Tommaso Nutarelli.
Oggi la situazione è ancora più drammatica perché l’epidemia da Covid 19 rischia di fare collassare un sistema che lavora da troppi anni al “margine” delle sue possibilità, senza elasticità e senza possibilità di modulare e ampliare le sue capacità di risposta.
L’esatto opposto di quanto avvenuto in Cina in cui in pochi giorni sono stati costruiti due nuovi ospedali, o di quanto potrebbe avvenire negli USA. Ricordo che nel 2008 costituimmo un gruppo di studio sulla organizzazione sanitaria americana Kaiser Permanente e che, per vedere come essa operava sul campo, ci recammo nella California del Sud.
Alla mia domanda di come avrebbero potuto rispondere a improvvise necessità di posti letto, in un sistema in cui erano le strutture territoriali il fulcro dell’assistenza, mi fu risposto dal CEO dell’organizzazione che i loro ospedali erano in grado di innalzare di un piano la struttura creando centinaia di nuovi posti letto in soli 15 giorni.
Da noi la fragilità tuttavia è dell’intero sistema paese. Una precarietà dello Stato che affonda le sue radici in tempi lontani. Talmente lontani che Gramsci ne ritrovava le origini nell’Impero romano contrapponendo Cesare (l’emblema del cosmopolitismo) a Cicerone (il difensore dello Stato) e successivamente il papato, interessato solo alla dimensione internazionale al Machiavelli che spingeva per la costituzione dello Stato.
In tempi molto recenti un contribuito a questa frammentazione mai risolta è stato ampiamente fornito, nel campo sanitario, dalla sciagurata riforma del Titolo V del 2001 con la nuova ripartizione delle competenze tra stato centrale e enti territoriali: alle regioni la potestà concorrente, che ha significato modelli organizzativi differenziati e tra loro incoerenti; allo Stato i principi generali e i poteri sostitutivi (ex art 120) nel caso in cui non venissero garantiti dalle regioni i livelli essenziali delle prestazioni (LEA).
Quello che si è verificato è stato l’esatto contrario: lo Stato ha tagliato draconianamente ed erga omnes, incurante delle storiche diseguaglianze tra i diversi territori e l’intervento sulle regioni, attraverso il regime del commissariamento dei quelle inadempienti, non è stato a maggior tutela dei cittadini ma a salvaguardia dei conti sgangherati degli enti territoriali ai fini dell’equilibrio generale.
Il Nord sempre più ricco e più dotato di strutture sanitarie, che ha utilizzato ricardianamente, in una sorta di “legge dei vantaggi comparati”, per drenare risorse, attraverso il saldo della mobilità sanitaria (4, 5 miliardi nella ultima rendicontazione) dalle regioni meno fornite di strutture e i cui cittadini fanno turismo sanitario verso la Lombardia e il Veneto. Il Sud sempre più desertificato con punte di particolare criticità per le strutture ad alto impatto assistenziale, in primis le rianimazioni, oggi agli onori della cronaca che ha abbandonato ogni tentativo di modernizzarsi.
La storica disarticolazione interna del paese è emersa drammaticamente nella gestione dell’infezione da coronavirus.
Il governo ha chiuso le frontiere con la Cina, infischiandosene dell’Europa, senza raggiungere l’obbiettivo prefissato, in quanto il virus era già penetrato nel nostro paese e nell’intero continente europeo. Le regioni hanno adottato misure non concordate e inefficaci consumando, inutilmente, i diagnostici necessari per accertare la presenza del virus nei sospetti.
A questo si sono aggiunte le offese del Premier Giuseppe Conte all’Ospedale di Cotogno che non avrebbe correttamente identificato il paziente zero. Una situazione peraltro replicatasi pochi giorni fa (sic!) a Roma dove un agente di polizia, affetto da Covid 19, è rimasto per diverse ore nel DEA del Policlinico Tor Vergata esponendo al rischio del contagio tutti i numerosi pazienti presenti nella struttura. Non da meno le avventurose e sconclusionate proposte di Matteo Salvini che chiede uno sforamento di 20 miliardi o il non pagamento delle tasse per il 2020.
Pioggia sul bagnato, la polemica tra scienziati divisi tra catastrofisti e minimalisti che hanno aggiunto confusione su confusione prima che il governo si dotasse di una propria struttura di governo del fenomeno.
Nel frattempo le strutture sanitarie non hanno predisposto ancora accettazioni differenziate per pazienti potenzialmente infetti e pazienti con altre patologie non trasmissibili. Né i medici né gli operatori sanitari sono stati dotati di mascherine adeguate e da tute e visiere che impediscano l’inalazione e il contatto con particelle salivari infette dal virus.
Ridicolo e patetico al contempo il video con cui il Presidente della Lombardia Fontana tenta di indossare maldestramente una inutile mascherina.
Se la situazione è questa, allora rischia di degenerare, e il governo dovrebbe assumere con determinazione una posizione ferma dichiarando un vero e proprio “stato di eccezione”.
E questo significa riapertura degli ospedali incautamente chiusi o trasformati in strutture ambulatoriali, assunzione in deroga del personale sanitario necessario, acquisto delle apparecchiature biomedicali indispensabili all’assistenza respiratoria, reclutamento delle numerose strutture sanitarie private e degli ospedali militari nella gestione dell’emergenza sanitaria.
Per impedire un eventuale collasso dell’intero sistema serve dunque un’assunzione di responsabilità, e mettere fine allo strapotere del codicillo del comma dell’articolo che ha trasformato il paese in un impero dominato dalla pletora legislativa e da un asfissiante burocrazia che ingessa ogni possibilità di movimento.
Il Paese può farcela a superare questa emergenza, ma per riuscire nell’intento deve cambiare il suo modo di ragionare e chiamare tutti a un contributo straordinario, pubblico e privato, in un’impresa comune che prima di tutto dia un’idea di Paese unito.
Un problema che finora la classe politica ha evitato in ogni modo di affrontare e che col tempo ha accentuato, nella ricerca incessante di un consenso immediato che nulla ha prodotto in termini di reale crescita del Paese.
Roberto Polillo