Le gravi carenze della programmazione sanitaria in Italia e negli altri paesi hanno favorito la diffusione dell’epidemia da SARS-COV-2.
La mancanza di un piano pandemico comune
L’inarrestabile dilagare dell’infezione da Sars Cov-2, in Italia come nel resto del mondo, è la dimostrazione di come i temi della prevenzione delle malattie infettive di tipo epidemico non abbiano fatto parte dell’agenda politica dei governanti dell’intero pianeta.
Unica eccezione la Cina e la Corea del Sud che hanno fatto tesoro delle loro precedenti esperienze con la SARS (sindrome respiratoria acuta grave) del 2003, causata da uno dei sette ceppi di coronavirus attualmente noti (8200 morti nel mondo) e la Mers (sindrome respiratoria mediorientale), causata da un altro coronavirus.
Quest’ultima, comparsa la prima volta nel 2012 in Giordania e Arabia Saudita è riemersa nel 2018, sempre in quest’ultimo paese, con un carico di morte che nulla ha a che vedere con quello causato dall’attuale COVID 19 (790 decessi) ma che pone il problema di possibili ondate infettive riemergenti anche a distanza di diversi anni dall’episodio iniziale. Evento del resto tipico di ogni pandemia, come insegna la terribile pandemia da virus influenzale del 1918-1919 detta spagnola.
La riduzione delle tutele sanitarie con a crisi del 2008
In sede europea poi (ma anche negli Stati Uniti, particolarmente carente per quanto riguarda lo stato sociale) la crisi economico-finanziaria, iniziata nel 2008 e proseguita fino ai giorni nostri, ha peggiorato il livello delle tutele sanitarie di tipo universalistico, portando a un progressivo disinvestimento in sanità, con punte oltremodo significative nei paesi più fragili come Italia, Spagna e Grecia (per non parlare di quelli dell’Europa dell’est in cui i sistemi di welfare sono stati costantemente carenti).
In tutti i paesi il finanziamento dei servizi sanitari ha subito una costante riduzione sia rispetto alle reali necessità (costantemente crescenti per l’invecchiamento della popolazione e il fisiologico aumento dei costi connessi all’innovazione tecnologica) e sia in valori assoluti. Accanto a questo si è registrata una consensuale crescita della spesa sanitaria privata, incapace tuttavia di produrre un equivalente generale di salute, perché troppo spesso viziata da consumismo e inappropriatezza delle prestazioni rese.
Il cambio di paradigma sulla programmazione sanitaria e l’abbandono di politiche proattive
Il dibattito pubblico, fortemente condizionato dalle problematiche relative alla mancata crescita economica e alla necessità di procedere a una riduzione della spesa pubblica (peraltro senza neanche centrare il primo obbiettivo) ha imposto come nuovo paradigma che nel sistema sanitario le risorse, progressivamente più scarse, dovessero essere concentrare principalmente sull’assistenza ospedaliera, il settore erroneamente considerato come l’unico e “vero” asse portante dell’assistenza sanitaria.
Una inversione di strategia politica rispetto agli anni precedenti alla crisi, in cui, partendo dalla giusta osservazione di una maggiore prevalenza delle malattie croniche degenerative rispetto a quelle infettive, tipiche degli inizi del secolo scorso, era stato avviato un nuovo discorso in tema di salute pubblica. Un discorso che, tenendo conto del nuovo scenario, la cosiddetta transizione epidemiologica, aveva puntato a modificare gli stili di vita e di lavoro con politiche di tipo proattivo attraverso il coinvolgimento multidisciplinare di una serie diversificata di attori sociali e istituzioni, in primis la scuola.
Tale approccio purtroppo, con il precipitare della crisi, è abortito sul nascere, sia per la decurtazione dei fondi destinati alla sanità e sia perché non era in grado di fornire al decisore politico risultati immediatamente visibili e come tali spendibili in termini di consenso a breve tempo.
Con il perdurare della crisi, inoltre, si rendeva più urgente sostenere i numerosi player privati che si erano progressivamente affermati nel mercato sanitario tradizionale a integrazione o per meglio dire in sostituzione dell’erogatore pubblico. E di qui il vorticoso sviluppo della mutualità integrativa, entrata, i nostri giorni, a fare parte qualificante di piattaforme rivendicative e di accordi contrattuali sempre più diffusi.
In breve tempo l’assistenza extraospedaliera e le cosiddette cure primarie sono state progressivamente depauperate di risorse finanziarie e progettuali e si sono concentrate, con il poco rimasto a disposizione, sulla fase riparativa del danno del singolo individuo, rinunciando totalmente a interventi di prevenzione collettiva a più ampio respiro: interventi complessi non limitati esclusivamente all’aspetto meramente assistenziale ma coinvolgenti stili e ambienti di vita e di lavoro che hanno un efficacia evidenziabile solo nel lungo periodo.
A subire un arresto di battuta quasi definitivo quell’insieme di politiche integrate coinvolgenti dunque alimentazione, sport, educazione e lotta ai fattori di nocività individuali (alcool, fumo, sedentarietà, sovraccarico calorico) e collettive (sicurezza nei luoghi di lavoro, città sane) rientrati nel progetto “guadagnare salute e la salute in tutte le politiche” e condivise nella loro fase iniziale anche dagli altri ministeri della salute europei.
La mancanza di competenze dell’Europa unita in tema di sanità umana
Si deve aggiungere inoltre che in sede europea la mancanza di una specifica competenza in tema di sanità, non prevista dai trattati costitutivi dell’unione, ha storicamente impedito che si elaborassero delle politiche comuni per promuovere la salute dei cittadini europei e, fatto ancora più grave, per predisporre piani emergenziali transfrontalieri atti a fronteggiare eventuali epidemie e situazioni di allerta collettiva; e questo purtroppo anche dopo il campanello di allarme rappresentato dalla comparsa dei due eventi nel 2003 e nel 2013.
L’Italia in realtà aveva elaborato un piano pandemico nel 2007 ma di tale importante documento, in cui venivano definite le azioni da intraprendere per limitare la diffusione di un’ipotetica pandemica a trasmissione aerea, non si è tenuto, inspiegabilmente, nessun conto nella gestione dell’attuale pandemia da Sars, Cov-2.
Un ulteriore paradosso, ai tanti già elencati, è che invece, in sede europea, misure di intervento comunitario sono specificatamente normate con carattere vincolante per tutti i membri dell’Unione per quanto riguarda la salute degli animali commercializzati e gli alimenti di import/export.
I risvolti economici che comporta infatti la commercializzazione di tali beni, per il nostro come per altri paesi, sono a tutti noti e sono oggetto di furiose battaglie politiche per la difesa identitaria delle diverse produzioni nazionali.
Esiste dunque una situazione che potremmo definire di “tutela asimmetrica” all’origine di due odiose e incomprensibili contraddizioni per la civile Europa in cui il welfare è nato: la salute animale ha un valore aggiunto che non è detenuto dalla salute umana; la salute umana non è degna di tutela universale non essendo considerata un bene pubblico ma un costo da porre a carico del bilancio di ogni singolo paese membro.
L’inadeguatezza dell’Italia e dei paesi europei nella gestione iniziale della pandemia da virus Sars- Cov- 2
Di fronte alla tragedia dell’epidemia da Sars Cov-2, che in Italia ha già contagiato quasi 100.000 persone e causato un numero di decessi superiori agli 10.000, gli stati europei, in una sorta coazione a ripetere, hanno commesso tutti gli errori che l’Italia ha collezionato, con la scusante, di essere stato il primo paese a dovere fronteggiare l’epidemia e l’aggravante di non avere tenuto in nessun conto l’appena citato piano pandemico elaborato dal ministero della Salute.
Evidentemente c’è stata una drammatica sottovalutazione di un’epidemia che, essendo inizialmente confinata a 8000 chilometri di distanza nella regione cinese dell’Hubei, era vista come troppo lontana dai nostri confini per rappresentare un pericolo. E’ ora evidente come le strategie implementate dall’Italia si siano, purtroppo, dimostrate inadeguate; e come siano stati collezionati una serie di errori, che è giusto ricordare, non per disfattismo, ma per mettere meglio a fuoco una strategia che possa farci uscire nel più breve tempo possibile dalla crisi.
Una serie di passi falsi madidi di conseguenze
Il primo paso falso commesso dal nostro paese è stato la chiusura dei voli diretti con la Cina non impedendo che tale divieto fosse aggirato attraverso voli indiretti; fatto questo che ha consentito agli operatori economici del Bergamasco di continuare a raggiungere quel paese, con cui sono intessuti intensi scambi commerciali connessi alla vendita e manutenzione di macchine per la filatura, eludendo la tracciatura di tali spostamenti e favorendo così l’importazione del contagio che si voleva impedire; un errore poi reiterato con la fuga di 200.000 persone dalla Lombardia verso il Sud il giorno della chiusura di questa regione, con ulteriore diffusione del virus nelle regioni di destinazione.
A questo, ha fatto seguito la mancata chiusura degli ospedali di Alzano e Cotogno con il contagio dei medici e delle persone in essi ricoverate e il mancato fermo delle fabbriche del bresciano che hanno continuato a lavorare a pieno ciclo facilitando la diffusione del virus.
Come ultimo evento, l’errore sicuramente più grave, il mancato annullamento della partita Atalanta / Valentia del 19 febbraio 2020; un appuntamento sportivo a cui hanno partecipato 50.000 bergamaschi (con trasferta a Milano stipati in auto, treni e metro) con inevitabile diffusione del contagio ed esportazione dell’epidemia anche in Spagna. E a dimostrazione di quanto abbia pesato tale ultimo circostanza il dato che l’esplosione del contagio a crescita esponenziale, che ha travolto le fragili difese dei servizi sanitari nazionali dei due paesi, si è verificata a distanza di 14 giorni; un tempo perfettamente coincidente con la fine del periodo di incubazione dell’infezione da virus Sars Cov-2.
Purtroppo, e questo è la circostanza più dolorosa, a nulla hanno valso le esortazioni a vietare la partita sollevate dai sindaci delle valli del bergamasco dove si registrava già un fortissimo aumento della mortalità della fascia anziana della popolazione; un evento di proporzioni tali da trovare giustificazioni solo in una diffusione già molto capillare dell’infezione.
La coazione a ripetere degli altri paesi europei
Ancora più imperdonabili gli errori degli altri paesi europei e degli USA che, invece di fare tesoro dei nostri e guardare con attenzione alle efficaci misure messe in atto da Cina e Corea del Sud, hanno reiterato la sottovalutazione del rischio lasciando che l’epidemia facesse il suo corso.
L’epidemia da Sars Cov-2 dimostra dunque i limiti non solo del nostro modo di approccio alla tutela della salute umana, prevalentemente orientato all’assistenza ospedaliera, ma anche di quello degli altri paesi occidentali non caratterizzati, a differenza del nostro, da pesanti deficit di bilancio.
Le strategie vincenti di Cina e Corea del Sud
Al contrario di quanto attuato finora in Europa per contrastare il contagio, la Cina e la Corea hanno vinto la loro battaglia per la capacità che questi paesi hanno avuto nel mobilitare l’insieme delle risorse a loro disposizioni:
risorse umane: rappresentate da medici, infermieri e volontari (50.000 circa) chiamati a un grandioso sforzo collettivo:
risorse di tipo materiale: le strutture sanitarie e gli ospedali specializzati costruiti a tempo di record in soli 10 giorni e i mezzi di protezione individuali degli operatori alla cui produzione sono state riconvertite una serie di fabbriche
risorse immateriali: la rete e si suoi dispositivi dai telefonini ai droni alle email al fine di individuare e mappare i soggetti malati o semplicemente positivi, favorendone le misure di quarantena e isolamento
Il sistema ha funzionato, per quello che ci è stato dato osservare, perché oltre alla fase ospedaliera di assistenza medica ai malati, con interventi invasivi erogati più precocemente rispetto agli standard europei (ventilazione meccanica dei pazienti) è stato implementato un efficace sistema di presa in carico territoriale dei pazienti meno gravi, dei dimessi dalla fase acuta e degli asintomatici risultati positivi al tampone.
In tutti questi casi si è scelto di quarantenare la totalità dei soggetti, in appositi spazi, impedendo qualsiasi contatto con i non contagiati per un periodo standard di due settimane. Misure a cui la popolazione ha risposto con solerzia e non, come malevolmente si sostiene, con violente misure repressive. Tutto l’opposto di quanto avvenuto in Italia dove gli ospedali sono diventati centri di diffusione del contagio e i medici, senza evidenti sintomi clinici, sono stati costretti, incredibilmente, a prestare servizio anche se positivi al tampone.
I riscontri epidemiologici di Vò euganea
Un paradosso se si tiene conto che dall’analisi dei tamponi eseguiti sui cittadini veneti di Vò Euganeo era risultato nella popolazione un tasso di positivi asintomatici del 3% ed era stato dimostrato che tali soggetti si erano resi responsabili del 40% dei successivi contagi. Sarebbe stato fondamentale dunque eseguire tamponi in modo estensivo cominciando da tutti i possibili forti diffusori del virus come personale sanitario e altro personale esposto al pubblico. Al contrario le indicazioni iniziali della OMS sono state di riservare i tamponi ai soggetti malati nella erronea convinzione che il virus non si potesse diffondere a partire dagli asintomatici.
La risposta sanitaria della regione Lombardia
La risposta della Lombardia, la regione investita da un contagio di proporzioni spaventose, è stata eccellente per quanto riguarda la qualità del servizio prestato da medici, infermieri e personale d’assistenza, pur con le drammatiche carenze di mezzi di protezione individuale emerse nelle aree a maggiore diffusione del virus; altrettanto eccellente è stata la risposta ospedaliera di tipo tecnico-assistenziale e la sua capacità di implementare i posti di terapia intensiva e sub-intensiva. Scarsa e talvolta drammaticamente carente è stata invece l’assistenza territoriale, dimostratasi particolarmente marcata nelle aree più disperse del bergamasco.
In quei distretti i medici di base sono stati mandati allo sbaraglio per la totale mancanza di mezzi di protezione individuale in grado di impedire la trasmissione dell’infezione, e per la carenza di una qualsiasi pianificazione degli interventi. Il triste risultato di tali inadeguatezze è un pesante bilancio di vite umane perse considerato che dei 61 medici finora deceduti in servizio la metà provengono proprio dalle fila dei medici di medicina generale. La conseguenza più drammatica dell’inadeguatezza dell’intero sistema di risposta territoriale è stata poi l’impossibilità di prestare soccorso a domicilio alle persone malate, molte delle quali, non essendo neanche riuscite a raggiungere gli ospedali sovraccarichi, sono morte in poche ore senza un minimo di assistenza. Oggi sappiamo che il numero di anziani deceduti è sicuramente superiore di 10 volte a quelli ufficialmente morti per COVID19: una tragedia nella tragedia perché per taluni è un’intera generazione di anziani ad essere stata falcidiata in pochi giorni.
Ripensare il modello assistenziale
Ci sarà tempo per analizzare nel dettaglio e a mente fredda cosa non ha funzionato nei nostri sistemi sanitari regionali. E questo non per un desiderio punitivo nei confronti di qualcuno che si è dimostrato inadeguato. Non è una questione di responsabilità personale quanto piuttosto di una responsabilità collettiva di mancata programmazione; una responsabilità che ovviamente chiama in causa anche il livello nazionale. La regione Lombardia, che ha pagato finora un prezzo drammaticamente elevato, e a cui deve essere rivolta la nostra totale solidarietà, ha tuttavia dimostrato in modo eclatante come un sistema sanitario totalmente basato sull’assistenza ospedaliera sia in grado di risposte di elevato profilo in termini di assistenza al singolo individuo, ma sia totalmente impotente di fronte a episodi epidemici. In tale circostanza, infatti, la battaglia si vince, come hanno dimostrato Cina e Corea, a domicilio del paziente. Anzi ancora prima adottando misure in grado di prevenire l’ulteriore diffusione contagio, identificando i portatori sani, con l’uso dei tamponi e degli altri mezzi diagnostici e, soprattutto, attuando misure di quarantana individuale.
Fare tesoro degli errori commessi
Dagli studi condotti su Vò Euganeo infatti emerge un ulteriore dato che deve essere attentamente considerato; il contagio è avvenuto prevalentemente a partire da soggetti portatori sani del virus e in ambiente familiare. E’ stato infatti calcolato che un familiare a contatto stretto con un congiunto portatore sano del virus ha un rischio relativo di contrarre l’infezione 100 volte superiore rispetto a chi non si trova in tale situazione.
C’è dunque l’amara costatazione che la casa, in cui abbiamo confinato i cittadini per proteggerli dall’infezione, si possa trasformare nel suo esatto contrario, ovvero sia nel luogo in cui il contagio diventa particolarmente frequente.
Se questo è, considerato che la fine dell’emergenza sembra ancora lontano nel tempo, è auspicabile che le future strategie di gestione dell’emergenza facciano tesoro degli errori finora accumulati e soprattutto dell’esperienza maturata negli altri paesi e dei dati emersi anche nel nostro.
Roberto Polillo