Tutti affermano che nulla sarà più uguale a prima quando la pandemia terminerà. E ci si affanna a individuare i cambiamenti, sempre sperando che siano in meglio, che la situazione generale migliori. Moderatamente ottimista si mostra Raffaele Morese, ex sindacalista, segretario generale aggiunto della Cisl, sottosegretario di Stato al Lavoro, attualmente presidente di Nuovi lavori, una libera associazione che diffonde cultura del lavoro. Moderatamente ottimista perché pensa che la situazione migliorerà, avremo aziende più forti, si ridurrà la catena del valore, gli investimenti avranno maggiore attenzione all’aspetto ecologico, soprattutto all’innovazione, quella vera, che crea valore aggiunto. E cambieranno le relazioni industriali, avremo contratti di filiera, più contrattazione territoriale, maggior controllo dei lavoratori sugli investimenti delle imprese. Il sindacato in quest’ottica può rafforzarsi, se sceglie di rappresentare quei 4 o 5 milioni di lavoratori senza un contratto a tempo indeterminato, le partite iva, i collaboratori. Ma questa è una scelta politica.
Morese dopo il Covid19 cosa cambierà nell’assetto produttivo e di relazioni, industriali del nostro paese?
Non è facile prevedere cosa accadrà. Penso che sicuramente il sistema produttivo delle imprese si rafforzerà in termini dimensionali. Le imprese diverranno più consistenti, più forti. E parallelamente si accorcerà la catena del valore.
E’ possibile che ciò accada?
Diciamo che è probabile che accada, perché ci sarà una vera e propria moria tra le piccole aziende, sarà inevitabile dopo quello che ci sta accadendo. Accadrà, con o senza aiuti da parte dello stato. E questo farà riflettere molti, spero, sugli errori commessi.
Quali errori?
Quelli fatti con le delocalizzazioni, interne ed esterne al sistema delle imprese. Interventi che hanno indebolito il sistema produttivo, di cui adesso paghiamo le conseguenze.
E cosa altro accadrà?
Un altro cambiamento che avverrà riguarderà, spero, l’innovazione tecnologica e organizzativa, perché abbia sempre più un carattere ecologico, sia finalizzata alla riduzione dell’inquinamento. E che si tratti di vera innovazione. Mi fa ridere sentire che la Miroglio si qualifica con la produzione di mascherine. Queste servono, certo, ma produrle non significa rinnovarsi, operare una vera innovazione tecnologica. Chiamiamo le cose con il loro nome. Importante è che quando avremo la ripresa produttiva non si torni a produrre beni con scarso valore aggiunto, che non si torni indietro invece di andare avanti.
Nelle relazioni industriali cosa avverrà?
Penso possano avverarsi due cose. La prima è l’arrivo di contratti di filiera. Perché se il sindacato vuole tutelate il lavoro deve ricostruire il ciclo produttivo, nell’agricoltura come nell’industria.
E la seconda?
Una dimensione maggiormente territoriale della contrattazione e un controllo degli investimenti delle imprese da parte dei lavoratori, perché siano maggiormente ecologici, attenti ai problemi delle persone, alla tutela professionale di chi lavora e di chi aspira a lavorare.
Auspichi che ciò avverrà o pensi davvero che accadrà?
No, penso che queste cose si possono avverare, perché solo con una spinta ad alzare il valore aggiunto possiamo pensare di uscire da questa crisi, non con una regressione.
La classe imprenditoriale è in grado di capire l’urgenza di questo cambiamento?
Non lo devono capire gli imprenditori, tutto dipende da come il governo distribuisce le risorse economiche. Se le distribuisce a pioggia, uno ragiona su come innovare. E’ diverso se invece le risorse, quelle nazionali, ma anche quelle europee, sono date in maniera mirata, in funzione di una crescita dell’innovazione. E’ un problema di responsabilità della politica industriale.
Che non abbiamo da quarant’anni.
Questo è il problema. E poi abbiamo bisogno di una politica fiscale vera e consistente che favorisca le aziende che vogliono aggregarsi, che incentivi la riduzione della catena del valore, che spinga gli investimenti che tendono a ridurre il CO2. Tutti problemi che avevamo prima del Covid 19. Problemi di cui pensavamo di doverci occupare negli anni e che sono ancora lì.
Serve un’accelerazione non solo a parole.
Deve cambiare la qualità del lavoro, l’attenzione alla professionalità e quindi alla formazione.
Di cui si parla tanto, ma per la quale si fa poco.
Bisogna prendere atto che questi sono i problemi forti di oggi, ineludibili. Come, ad esempio, l’intervento sull’orario di lavoro. Noi lavoriamo 250 ore l’anno più della Germania. Se di queste 250 ore ne dedicassimo 125 alla formazione i problemi si ridurrebbero. Ma dobbiamo prendere atto di questa necessità.
Che deve fare il sindacato?
Avviare una contrattazione che punti a una riduzione del tempo di lavoro finalizzata alla formazione. La speranza è che ci si arrivi in un clima di collaborazione, non vedo all’orizzonte una fase conflittuale.
Morese, la vedo moderatamente ottimista sul futuro.
Sì, penso che abbiamo le condizioni per una vera ripresa. Anche perché si è visto che gli italiani sono migliori della loro classe dirigente. In questa emergenza sono stati ubbidienti, hanno cooperato, non si sono ribellati. Ho visto invece una classe dirigente ancora novecentesca.
Come si è mosso il sindacato?
Bene, ha rivendicato reddito e salute dei lavoratori. Ma il difficile arriva adesso.
Bisognerà rivedere le priorità, i diritti?
Sento un gran parlare di un nuovo statuto dei lavoratori, ma non mi sembra giusto ripartire da qui. Lo statuto cinquant’anni fa non fece altro che generalizzare i diritti che i lavoratori avevano già conquistato nelle fabbriche. Lo statuto è arrivato dopo. Adesso non si deve pensare a una legge, ma il sindacato deve lavorare per allargare i diritti.
Per rivendicare serve un sindacato forte.
Il sindacato può rafforzarsi se decide di curare più da vicino quei 4 o 5 milioni di lavoratori che non riesce a rappresentare. Le partite iva, i part time forzati, le collaborazioni, le forme spurie di contratti: tutti lavoratori che non hanno gli stessi diritti di chi ha un contratto a tempo indeterminato. Il sindacato negli anni sessanta divenne forte perché decise di rappresentare gli operai comuni. Fu una rivoluzione, cambiò i rapporti di forza. Ma questa è una scelta politica.
Massimo Mascini