Impareremo qualcosa da questa crisi? Penso di sì, forse ci sono le premesse perché ciò avvenga. Le previsioni macroeconomiche a breve sono terribili. Ci promettono un’economia da guerra, uno scenario come quello che abbiamo avuto alla metà degli anni quaranta. Al confronto di quanto ci attende, la crisi del 2008, quella di Lehman Brothers, sarà un ricordo quasi piacevole. Le perdite che stiamo accumulando in queste settimane di stasi produttiva ci metteranno a terra. Non basterà rimboccarsi le maniche, come pure gli italiani sono capaci di fare nei momenti di difficoltà. Anche se i guai non saranno solo nostri, perché tutto il pianeta si sta fermando, sarà comunque una prova difficilissima, e non è detto che se ne esca bene. Ma non è detto nemmeno il contrario, che questa prova risulti troppo difficile per noi e che dobbiamo uscirne in perdita. Anzi, è possibile, non probabile ma certamente possibile, che questa
ripartenza si tramuti alla fine in un’opportunità unica, in una felice congiuntura dalla quale uscire migliori, più forti. Proprio perché si tratterebbe di una ripartenza, noi avremmo infatti l’occasione di ridisegnare la struttura della nostra economia, evitando gli errori che ci hanno resi vasi di coccio tra i vasi di ferro. Potremmo evitare gli errori del passato. Ricominciare così a investire in quelli che la crisi ci ha fatto capire sono gli assi fondamentali della nostra società. Potremmo tornare a investire nelle cose che alla fine davvero contano, la salute, la scuola, la ricerca, la cultura. Sono questi i fondamenti del vivere civile, la promessa che dovremmo fare a noi stessi è di non dimenticarlo un’altra volta. Per anni abbiamo fatto finta che le priorità fossero altre, adesso ci siamo resi conto di quanto sia povera una società che non garantisce appunto salute, istruzione, cultura, arte.
Allo stesso modo dovremmo riuscire a puntare su un’economia che non cresca disordinatamente, ma secondo una linea studiata e ponderata con giudizio. La programmazione non era solo il sogno di un gruppo di studiosi degli anni sessanta, era la base di un lavoro serio che poteva far crescere il paese secondo linee che non creassero sacche di povertà e non dessero luogo a ingiustizie sociali. Un mondo migliore, sì, ma perché non dobbiamo aspirarvi? Perché non dobbiamo credere in uno stato che riesce a indicare cosa deve crescere, cosa forse è meglio tralasciare, quali sono le cose importanti, i settori economici e produttivi da incentivare per stare tutti un po’ meglio?
Un’azione difficile, certo, molto difficile, che non sarebbe possibile in una condizione di normalità. Perché per realizzarla serve un salto, innanzitutto culturale, complesso, che però può essere possibile in un momento eccezionale come questo. Proprio perché si ripartirebbe da zero, è possibile pensare di riscrivere l’economia tenendo conto degli errori commessi, del fatto che oggi sappiamo con certezza che quelli erano errori. Il primo forse potrebbe essere quello del ruolo dello stato nell’economia, tutto da riscrivere.
Nell’aprile del 1993 gli italiani decisero che le partecipazioni statali dovevano uscire di scena. I radicali di Marco Pannella chiesero e ottennero un referendum per abrogare la legge che aveva istituito il ministero delle Partecipazioni statali. Il 90% degli italiani, 31 milioni di elettori, decisero che era giusto farlo e chiusero un capitolo della nostra storia. Avevano ragione, perché quel sistema era stato svilito profondamente dalla crisi dei partiti politici e dal dilagare della corruzione. Ma fu una scelta sbagliata, di quelle per cui, come dicevano i sindacalisti qualche anno fa, si getta via il bambino con l’acqua sporca.
Quelle aziende erano corrotte e improduttive, è vero, ma avevano alle spalle un passato glorioso, nei primi decenni del dopoguerra avevano fatto grande il nostro paese. L’Iri in quegli anni felici era un modello che tutti ci invidiavano, venivano da lontano a studiare questa formula, perché era vincente, sapeva mettere assieme il pubblico, l’interesse pubblico, e quello privato. L’Eni era l’ente che era riuscito a scardinare il potere, immenso, delle grandi imprese petrolifere americane, le mitiche sette sorelle, che facevano in tutto il mondo il bello e il cattivo tempo, e si era conquistato in terreno di battaglia importante. Erano tempi difficili, quelle aziende erano cambiate, ma l’idea era buona. E invece fu abbandonata in un batter d’occhi.
Eppure anche oggi l’economia del paese può contare su grandi aziende che agiscono nel campo del diritto privato, ma il cui capitale è in mano allo stato. Sono loro che investono, producono in campi altamente strategici, assicurando lavoro a tutto l’apparato produttivo del paese. Non ci sono solo loro a tenere il campo, certamente, ma di sicuro ne rappresentano l’aspetto migliore. Domani, al momento della ripartenza, dovremmo fermarci a riconsiderare questa presenza, per non commettere un altro grande errore.
Certo, non si tratta di scelte facili, tutt’altro. E per farle servirebbe una classe dirigente all’altezza del compito, come quella che trovammo nella metà degli anni quaranta. Ma quella adesso non c’è. È proprio questo il punto debole di tutto l’occidente, il non avere più una capace classe dirigente.
Questo però non deve farci desistere dal compito difficile che ci aspetta. In fin dei conti non si parte proprio da zero, alcune persone di valore le abbiamo tra di noi. Si tratta di scoprirle, dare loro spazio, aspettare con fiducia.
Massimo Mascini