“Uno dei giorni più tristi della mia lunga vita di lavoro.” Così ha detto ieri il cavalier Giovanni Arvedi. Di cosa parlava l’uomo che, nel 1963, ha fondato le prime due società di quello che sarebbe poi diventato l’omonimo gruppo siderurgico? Lo spiega una scritta anonima comparsa, sempre ieri, davanti all’altoforno della Ferriera di Servola, spento definitivamente poche ore prima: “Dopo 123 anni di onesto lavoro la Ferriera si congeda con onore.” Scritta attribuibile, secondo Il Piccolo, il quotidiano di Trieste, agli operai dello stabilimento che, così, “hanno voluto salutare simbolicamente quello che a lungo è stato il loro luogo di lavoro”.
Nove aprile 2020. Ecco dunque una data che se, da un lato, si riferisce a un evento che – a causa delle soverchianti notizie che ci vengono rovesciate addosso, quotidianamente, in relazione all’emergenza coronavirus – ha rischiato di restare confinato nell’ambito delle cronache locali di Trieste e, tutt’al più, della Venezia Giulia, dall’altro entra direttamente nella storia della siderurgia italiana.
Quella cifra che abbiamo appena menzionata, relativa ai “123 anni di onesto lavoro”, si riferisce infatti alla data del 24 novembre 1897, ovvero a quella della prima colata effettuata nell’allora neonata Ferriera. Due o tre mondi fa. Allora, Trieste era il principale porto marittimo dell’Impero Austro-Ungarico e a fondare lo stabilimento era stata una società basata a Lubiana, oggi capitale della Slovenia, la Krainische Industrie Gesellschaft (Società industriale della Craina).
Da quei lontani giorni, la Ferriera ne ha viste tante, cambiando più volte proprietà, dall’Iri, di cui entrò a far parte negli anni 30, fino alle complesse vicende del processo di privatizzazione della siderurgia pubblica, a partire dagli anni 80 del secolo scorso. Fino a quando, nel 2015, sembrava aver trovato nuove prospettive di sviluppo entrando a far parte del gruppo Arvedi, il portabandiera dell’innovazione tecnologica nel mondo siderurgico italiano.
Ma così non è stato. Dopo aver resistito a due guerre mondiali e alle alterne vicende dell’economia capitalistica, segnata – come è noto – da crisi ricorrenti, l’altoforno ha ceduto di fronte a variegate ma convergenti spinte politiche, concretizzatesi sotto il primo Governo Conte in una strana alleanza tra un Ministero dello Sviluppo economico caduto in mani grilline (prima con Di Maio, poi con Patuanelli) e la Regione Friuli-Venezia Giulia, guidata dal leghista Fedriga dalla primavera del 2018. Una strana alleanza che ha trovato un punto di convergenza nell’idea di chiudere l’area a caldo della Ferriera e di consentire così, dopo i previsti smantellamenti, di “liberare” delle aree, peraltro assai vicine al porto di Trieste, che potranno essere utilizzate per altri scopi. Il tutto condito da ideologie più o meno ambientaliste che esaltano lo spegnimento dell’altoforno in nome di una agognata “decarbonizzazione” (quella vagheggiata anche, per Taranto, dal piddino Emiliano, Presidente della Regione Puglia).
I risultati di questa brillante operazione sono due. Sul piano nazionale, l’Italia viene a perdere l’unico altoforno rimasto, al di fuori del centro siderurgico di Taranto, in quello che, fino a un tempo non lontano, è stato uno dei primi dieci paesi al mondo produttori di acciaio. E questo, si noti, proprio in un momento in cui, a partire dall’emergenza coronavirus, sembra essere entrata in crisi l’idea stessa che, per un grande paese manifatturiero quale l’Italia è ancora, sia conveniente doversi rifornire in paesi lontani di materie più che necessarie quali l’acciaio.
Sul piano locale, a Trieste e dintorni, chiusa l’area a caldo, ci saranno centinaia di operai in Cassa integrazione anche quando l’emergenza Covid-19 sarà, auspicabilmente, superata. Infatti, il laminatoio a freddo, mantenuto in funzione da Arvedi, non potrà riassorbire, da solo, la manodopera attualmente non occupata. E ciò proprio in un momento i cui il resto dei mirabolanti progetti coinvolgenti Trieste nei disegni grillin-leghisti, a partire dallo sviluppo di un’area portuale che dovrebbe diventare uno dei principali terminali della cosiddetta nuova Via della seta, appaiono appesi a una serie di speranze non solidamente fondate.
Non per caso, quindi, Debora Serracchiani, ex presidente della Regione e attualmente deputata Pd, ha dichiarato che i lavorati della Ferriera “sono una grande risorsa di professionalità e dignità” e meritano “una prospettiva migliore della sola Cassa integrazione”. “Le istituzioni, che hanno portato così rapidamente alla chiusura” dell’area a caldo, ha aggiunto Serracchiani , “siano ancor più veloci a creare le condizioni per la reindustrializzazione dell’area”.
“Non so – ha detto al Diario del lavoro Gianni Venturi, responsabile siderurgia nella Segreteria nazionale della Fiom-Cgil – se il 9 aprile sia stato effettivamente il giorno più triste nella vita professionale del cavalier Arvedi. Quel che so è che, di certo, è un giorno molto triste per i lavoratori della Ferriera di Servola come anche per tutti quelli che hanno continuato a difendere le ragioni di una produzione di valore strategico per il nostro Paese.”
@Fernando_Liuzzi