Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia, per tanti anni sindacalista al vertice della Cisl, è sicuro. Le relazioni industriali cambieranno profondamente, anzi, sono già cambiate. Varierà l’organizzazione della produzione, ma si dovranno fare i conti anche con una nuova organizzazione sociale. Ci aspetta una grande stagione di relazioni, che avranno il tratto distintivo di essere molto più partecipative. Questo porterà all’assunzione di grandi responsabilità. Soprattutto servirà un grande piano di politica industriale, dotato di pesanti investimenti, pubblici e privati. E sarà il governo, solo il governo a realizzarlo, in un grande concerto con tutti i soggetti interessati.
Baretta, come hanno funzionato le relazioni industriali in questa emergenza?
Molto meglio del previsto. E’ emerso un vero e proprio nuovo modello di relazioni, una cosa molto importante, non era tanto prevedibile che riuscissimo a vederlo.
Un nuovo modello di relazioni industriali?
Sì, è accaduto proprio questo, si è sviluppato sia al livello centrale che in quello periferico. Con caratteristiche tutte differenti rispetto al passato se si considera che stavolta sono stati i sindacati a chiedere che si fermassero le fabbriche, mentre gli imprenditori volevano tenerle aperte. Di solito accade il contrario. Un modello nuovo sul quale sarà necessario riflettere anche per il futuro.
E’ cresciuto il dialogo tra le parti sociali e tra queste e le istituzioni?
Sì, direi, considerandone i contenuti, con caratteristiche di qualità. Adesso bisogna vedere come questo modello sia operativo. Non si tratterà di una operazione semplice, proprio perché ci saranno notevoli difformità rispetto al passato. Pensiamo, ad esempio, al delegato alla sicurezza, una figura che fino a un mese fa non era tra le più importanti in azienda.
Che adesso invece ha acquistato rilevanza.
È diventato un soggetto centrale, tra i più importanti in azienda, perché la salute è ora, e sempre più lo sarà, un elemento determinante nei luoghi di lavoro. E cambierà anche l’organizzazione del lavoro, quanto meno per assicurare il distanziamento, per facilitare l’uso degli strumenti di protezione. Tutto il sistema della produzione subirà cambiamenti che dovranno essere studiati e poi seguiti con grande attenzione. Un compito delle rappresentanze in fabbrica, ma che deve trovare uno sviluppo anche in sede confederale, perché dovrà cambiare, per esempio, tutto il sistema di avvicinamento alla fabbrica.
Che non può restare quello di prima.
È evidente che il sistema dei trasporti deve variare in profondità, è impossibile pensare agli affollamenti di persone nei pullman o nelle metropolitane di una volta. Un capitolo totalmente nuovo, che impegnerà le relazioni industriali, nel dialogo tra aziende e sindacati, ma coinvolgerà anche gli enti locali che devono organizzare i trasporti pubblici. Quindi si presenteranno problemi di organizzazione della produzione, ma anche dell’organizzazione sociale. E questo potrebbe rendere necessario individuare una nuova organizzazione dei tempi di lavoro per variare gli accessi in fabbrica.
Si aprono prospettive molto ampie di cambiamento delle relazioni industriali.
Credo che le relazioni industriali si intensificheranno e saranno più cogenti. Saranno molto attive, proprio perché dovranno risolvere una serie di problemi nuovi, e richiederanno grandi assunzioni di responsabilità. Cambierà l’approccio negoziale, e le relazioni, pur sempre nella tutela dei diritti, saranno molto più partecipative.
Cosa altro cambierà?
Per esempio, tutto il capitolo del welfare aziendale, il ruolo dei diversi istituti, le loro finalità. Materie che dovranno essere studiate e innovate profondamente per tener conto delle nuove priorità che si sono andate profilando. E allo stesso modo dovrà finalmente divenire centrale il nodo della produttività, nelle sue diverse sfaccettature possibili. Soprattutto, credo, servirà un contesto che aiuti le imprese a comprendere meglio le evoluzioni del mercato. Le aziende devono sapere come muoversi, cosa temere, quali mercati si chiuderanno e quali al contrario si apriranno.
Un tema aperto alle relazioni industriali.
Sì, perché dovranno mutare i rapporti dentro la fabbrica. Se devi chiedere dei sacrifici ai lavoratori, cambiare il loro lavoro, è necessario farlo in una cornice diversa, dove i diritti di informazione previsti dai contratti nazionali di lavoro assumono una centralità prima sconosciuta.
Le nuove relazioni industriali saranno quindi più partecipative?
Molto più di prima, non sarà in gioco solo l’informazione, deve esserci vera condivisione, ma questo significa cambiare profondamente rapporti. Sarà un periodo di relazioni molto più intenso, per il quale servirà una grande disponibilità delle parti.
E’ di buon auspicio la grande mole di accordi raggiunti in queste settimane da tutti i grandi gruppi sulla gestione delle imprese, sulle chiusure o su come e quando mantenere i siti produttivi aperti?
C’è stata una grande assunzione di responsabilità, un vero salto di qualità, forse è stato determinante quel cambio di paradigma di cui parlavo prima. Perché per un sindacato confrontarsi con le controparti chiedendo la chiusura degli impianti è stato un cambiamento notevole che ha costretto a una riflessione più strutturata. Per questo dico che avremo una stagione di relazioni industriali molto ricca se si accetteranno questi parametri nuovi e se ci sarà una grande collettiva assunzione di responsabilità.
In questa emergenza le associazioni imprenditoriali sono sembrate in difficoltà a fronte dei grandi gruppi, che sapevano bene come muoversi.
Gli imprenditori sono rimasti spiazzati dalla gravità e dalla velocità della diffusione del virus, hanno avuto grandi difficoltà, legate a due diversi fattori. Il primo è stato la caduta drastica della produzione, quindi la sensazione di perdere piazzamenti, di dover magari chiudere. Questo li ha disorientati, sia individualmente che collettivamente.
Il secondo fattore?
L’idea stessa di dover restare fermi, che per un imprenditore rappresenta un vero vulnus, di natura ideologica, culturale, perfino etica, a sua volta ha causato un rallentamento nella ricerca degli strumenti con i quali cercare una soluzione alternativa. E credo che in questa evenienza è stato possibile avere una perfetta sensazione della struttura del tessuto produttivo del nostro paese, fatto di tante piccole e piccolissime aziende. Non è un caso se le associazioni degli artigiani hanno reagito con più velocità. Come ha influito certamente il fatto che alcune delle nostre grandi aziende abbiano la loro sede legale in Olanda, proprio il paese che ha ostacolato le nostre richieste all’Unione.
Fatto è che le grandi associazioni imprenditoriali hanno avuto delle difficoltà a gestire l’emergenza.
Alle aziende in generale è mancata una precisa valutazione delle tendenze dei mercati internazionali, di cosa stava accadendo e di cosa sarebbe accaduto nel mondo. C’è stato uno spiazzamento pericoloso. Pensiamo a cosa è accaduto quando in Cina è iniziata l’emergenza. Il ministro Di Maio ha suggerito di stanziare un fondo di 300 milioni per aiutare le imprese impegnate in quel paese a spostare i loro interessi altrove. Ma poi anche gli altri paesi hanno cominciato a patire, e allora i problemi sono cambiati. Le aziende hanno reagito male, e forse in ritardo, perché non sapevano dove dirigersi, che decisioni prendere. E lo stesso vale adesso che dobbiamo affrontare la ripartenza, difficilissima, perché sappiamo che il Coronavirus avrà due effetti, un impoverimento generale della popolazione e una profonda trasformazione del tessuto industriale. Tutto cambia, ma noi cosa facciamo? Lasciamo che vada avanti una sorta di autoselezione naturale o facciamo delle scelte che ci orientino? Il punto è che servirebbe una nuova politica industriale.
Che al nostro paese manca da decenni.
Non c’è dubbio, ma certamente questo è il momento di dimostrare una grande capacità di decisione di prospettive.
Come possiamo ovviare a questa mancanza?
Il nostro paese difetta di materie prime, ma ha a disposizione alcuni importanti atout. Il primo è il turismo e la cultura, che certo non sono in questo momento in condizioni di ripartire, ma prima o poi lo faranno e potranno contare sul fatto che abbiamo il 70% del patrimonio artistico mondiale e risorse naturali tra le migliori del mondo. E’ evidente che dobbiamo migliorare la nostra offerta, farla crescere in qualità, ma questa resta sempre una grade sfida che possiamo vincere.
Gli altri atout?
Il fatto che siamo sempre il secondo paese manifatturiero d’Europa e la manifattura è fatta di meccanica, di tessile. Il made in Italy è imbattibile, può diventare la carta vincente per la nostra economia. E infine la nostra posizione nel Mediterraneo, per noi la logistica può rappresentare una notevole chance. Credo che dobbiamo puntare su queste tre potenzialità per costruire un grande piano, che conti su ingenti investimenti, pubblici e privati.
Baretta, è possibile affermare che il paese nel suo complesso ha reagito abbastanza bene in questa emergenza, mentre la classe politica ha mostrato tutti i suoi limiti, tornando subito a litigare come se non ci fosse che il gioco tra maggioranza e minoranza?
Non sarei così drastico. Le polemiche sono riprese quando è iniziato il dibattito sulla ripartenza. Prima, quando siamo stati tutti concentrati sulla crisi, c’è stata anche collaborazione tra governo e opposizione, faticosa, ma c’è stata. Appena si è tornati alla normalità sono riprese le liti. Ma non bisogna dimenticare che il governo, partito spiazzato come tutti, in un mese ha trovato 70 miliardi di euro di danaro fresco da impegnare nella ripresa e altri 700 miliardi di garanzie. Una reazione c’è stata e anche forte. Il punto è che siamo stati tutti presi di sorpresa, incapaci di valutare l’entità del pericolo. Ricordo che all’inizio della pandemia c’è stato qualcuno che ha parlato di possibili 100mila contagiati ed è parsa a tutti un’esagerazione. E invece siamo già oltre.
Ma il paese ce la farà a reggere alle difficoltà che lo attendono?
A mio avviso sì. Senza fare retorica, non scordo che il nostro paese ha una grande capacità di reazione proprio nel momento di maggiori difficoltà. Però non dobbiamo credere che sia possibile fare tutto in una logica solo assistenziale, in cui lo Stato pensa a tutto, sarebbe un grande errore. E queste scelte strategiche, di fondo, dobbiamo farle tutti assieme, dobbiamo riscoprire lo spirito del dopoguerra, quando tutti si sono sentiti protagonisti, tutti si sono rimboccati le maniche.
Ma quel grande piano di investimenti, da chi dovrebbe essere messo a punto? Chi deve essere il vero protagonista?
Il governo, è indubbio, solo il governo, in un grande concerto con tutti i protagonisti, ma assumendosi, come gli compete, l’onere delle scelte di fondo.
Massimo Mascini