Cambierà tutto. Dopo il Covid nulla più sarà come prima. È il leit motiv di tutte le interviste che stiamo facendo in queste settimane. La consapevolezza della necessità di una diversificazione è forte, ma nessuno sa bene cosa accadrà. Anche perché, come ci detto Annalisa Magone nell’ultima intervista che le abbiamo fatto, il Covid è come un prisma, che ridà immagini sfocate, tutte diverse, dà una visione deformata delle cose impedendo di capire fino in fondo cosa stia accadendo. Ed è lo stesso motivo per cui questa pandemia, che tanto male ci ha fatto e continuerà a lungo a fare, può anche essere vista come un’occasione, per rimediare agli errori, per raddrizzare le cose storte, per togliere di mezzo ostacoli piccoli e grandi che ci hanno sempre impedito di crescere come avremmo voluto e forse anche potuto.
Tutto cambierà, come nessuno lo sa. Cambieranno piccoli aspetti della nostra vita quotidiana, ma forse anche i grandi assi su cui ruota l’economia. Potremmo (o dovremmo) dare l’addio ai modelli economici che ci hanno accompagnato in questi anni. La prima a essere sacrificata potrebbe essere la globalizzazione, che pure fino a due mesi fa era vista come la positiva base della nostra realtà produttiva. Ci siamo accorti che proprio per questo frenetico cercare in giro per il mondo i semilavorati che ci servivano per la produzione avevamo allungato troppo la catena, divenendo fragili. I troppi scambi sono stati la base della diffusione del virus, ma anche il motivo per cui tante fabbriche hanno cominciato a chiudere ben prima che scattasse il lockdown.
Dovremmo allora cambiare modello. E magari, come ci suggerisce Beppe Gherzi, il direttore dell’Unione industriali di Torino che abbiamo sentito a inizio di settimana, dovremmo mettere mano alle grandi riforme che per tanti motivi in questi anni abbiamo sempre rimandato, perché costavano troppo, perché non erano tutti d’accordo, perché c’erano altre urgenze più pressanti. Questa è l’occasione giusta, perché abbiamo davanti a noi, è sempre di Gherzi la raffigurazione, un lungo prato verde, possiamo muoverci come vogliamo. Bisogna volerlo fare, però, e qui cominciano i dolori, perché è facile dirlo, poi l’attuazione è sempre un problema serio, irto di complicazioni.
E cambierà il lavoro. Non sarà un male, perché proprio il lavoro è il grande malato di questi anni, in Italia e un po’ in giro in tutto il mondo. Il lavoro ha perso valore e questo ha snaturato il nostro sistema, sociale prima che economico. Ma non sarà facile intervenire, anche perché la trasformazione che ci attende non potrà non essere molto profonda. A cominciare dal modo stesso in cui si lavora. L’obbligo del distanziamento, che dovrà accompagnarci per tutta la fase 2, in attesa del vaccino contro il Corona, ammesso che poi questo arrivi e il virus non muti continuamente, impone delle modifiche alle fabbriche e alle linee di montaggio. Cambiamenti molto ampi, perché, soprattutto nelle manifatture, si lavora gomito a gomito, gli ambienti sono abbastanza angusti. Il layout dei siti produttivi in questi anni sono stati via via rimodellati proprio per diminuire gli spazi: adesso occorrerà fare un percorso inverso, distanziare le persone, allungare le catene, creare spazi tra le diverse postazioni. Non sarà facile, sarà molto costoso e il pericolo vero è che alla fine, almeno in tante realtà, non se ne faccia nulla, si continui a lavorare come prima, giusto con più attenzione all’insorgere della malattia.
Cambieranno anche i turni di lavoro, perché non è pensabile che la gente continui ad arrivare in fabbrica tutta allo stesso orario. I trasporti pubblici, ormai è chiaro, sono uno dei più forti mezzi di diffusione dei contagi e quindi servirà la massima attenzione. Del resto non si vede perché si debba pensare di continuare come prima a lavorare con lo stesso ritmo e gli stessi orari. Ci saranno magari, dove si lavora per tutta la giornata, 24 diversi turni, uno ogni ora, per dividere gli arrivi, le presenze negli spogliatoi, nelle mense e così via. Ogni ora, magari anche ogni mezz’ora, ci sarà chi va via e chi arriva. Facile a dirlo, molto più difficile a farlo, perché l’organizzazione del lavoro dovrebbe cambiare radicalmente e servirebbe quindi un lavoro molto intenso di preparazione, di cui però al momento non si vede traccia. Fca, come ha raccontato Pietro Di Biase a Nunzia Penelope sul nostro giornale, ha già preso le sue misure e lo stesso hanno fatto tanti grandi gruppi, ma le altre aziende, le medie, le piccole non saprebbero come muoversi, devono essere aiutate, consigliate, ma non lo fa nessuno.
E dovrebbero cambiare le relazioni industriali. Anche queste non sono un modello che faticheremmo ad abbandonare, ma, come sempre, farlo non sarà semplice. Non è nemmeno chiaro, per esempio, se in queste settimane i rapporti tra lavoro e capitale hanno funzionato bene o male. I giudizi sono molto differenti. I grandi gruppi, ovviamente, sono stati i primi a muoversi e lo hanno fatto per lo più molto bene. Chi forniva servizi essenziali e ha continuato a produrre con risultati notevoli. Il fatto che Tim sia stata in grado di far lavorare in smart working 32mila persone su un totale di 45.500 persone è un successo che la dice lunga sull’abitudine di questa azienda al cambiamento.
Ma questo è un esempio. Hanno cercato di lavorare al meglio le associazioni di categoria con i sindacati di settore nazionali e sono stati raggiunti tantissimi accordo importanti per la continuità produttiva. Ma per esempio, il dialogo tra le confederazioni e tra queste e il governo non è stato facile. Sono stati fatti degli accordi, è vero, ma il giudizio in generale non sembra il più positivo. Anche per questo si pensa a una palingenesi delle relazioni industriali, che scavi nel profondo, che arrivi alla base delle disfunzioni che appesantiscono i rapporti. Nessuno dubita della bontà del dialogo tra le parti sociali e la realtà di queste settimane lo hanno provato. Ma forse sarebbe bene ripensare proprio i fondamentali delle nostre relazioni, come ci invita a fare Mimmo Carrieri. Lo ha detto bene Gherzi, in questi anni Confindustria e le confederazioni operaie hanno sottoscritto tanti accordi, ma i risultati sono stati nel complesso abbastanza scarsi, quando addirittura accordi fondamentali, come quello sulla rappresentanza, sono rimasti al palo, inapplicati.
Un ripensamento ab origine? Forse è necessario, pensando a forme diverse di contratti, che siano più funzionali. Ma alcuni problemi di fondo devono essere risolti una volta per tutte. Contratti aziendali o nazionali? Partecipazione vera o prove di forza? E i territori che autonomia devono avere? Ciascuno per il momento tira acqua al proprio mulino, ma è chiaro che se si vuole puntare su nuove relazioni industriali si deve sapere bene come sia opportuno muoversi. Servirebbe un accordo sui fondamentali: è quanto, mutatis mutandis, ci hanno detto sia Elena Lattuada, la segretaria generale della Cgil Lombardia, che Piero Albini, il direttore delle relazioni industriali della Confindustria. La nomina di Carlo Bonomi alla guida di Confindustria potrebbe essere l’occasione per far scoccare la scintilla giusta, per sedersi attorno a un tavolo con la giusta predeterminazione d’animo, quella in grado di condurre a un accordo vero, non alle finzioni di accordo di cui è lastricata purtroppo la via delle relazioni industriali del nostro paese.
Compiti complessi, da far tremare i polsi, soprattutto perché finora i soggetti che dovrebbero portare avanti questo compito non hanno dato grandi prove. Ma è ineludibile che alla fine qualcosa del genere si faccia, perché l’alternativa vera è quella di un declassamento del nostro paese. La ripresa ci trova debolissimi, sempre in coda a tutti i convogli, con pesi da portare sulle spalle che fatichiamo ogni giorno di più a sostenere. Dovremmo far crescere il tasso di produttività della nostra industria, perché è questo l’handicap che ci opprime, la nostra palla al piede, ma senza una profonda rivoluzione, senza una nuova politica economica, nuove relazioni industriali, un nuovo modo di lavorare, senza tutto ciò come possiamo sperare di farcela?
Massimo Mascini