Giusto cinquant’anni, 20 maggio 1970, il Parlamento approvava la legge 300, “norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e della attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, più conosciuta come Statuto dei diritti dei lavoratori.
Una legge che vide in Gino Giugni il principale artefice e nel combinato disposto di due ministri del lavoro ex sindacalisti (Giacomo Brodolini, socialista Cgil e Carlo Donatt Cattin, democristiano Cisl) i sostenitori-promulgatori (per inciso, il Pci in sede parlamentare si astenne al momento del voto). Una legge che raccoglieva quelle istanze, appunto, di libertà, ma anche di progresso e modernità che arrivavano dal mondo del lavoro e che nell’autunno caldo (e forse anche prima nelle rivendicazione dei metalmeccanici di metà degli anni sessanta) avevano avuto l’espressione e più forte.
Nonostante sia passato mezzo secolo, lo spirito di quella legge rimane intatto e innovativo.
Quello che è da allora è cambiato è il lavoro e nel maggio 2020 c’è anche il Covid-19.
Già la globalizzazione e la tecnologia avevamo messo in seria difficoltà il modo di produrre e lavorare e oggi la pandemia l’ha spazzato via. Provate solo a pensare cosa significa per i genitori-lavoratori e anche per uffici, negozi, fabbriche, aziende, l’entrate e relative uscite, distanziate di 15 minuti per singole classi scolastiche. Questa però, può essere anche un’occasione d’oro per le associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori d’opera per avviare una “primavera calda”, che interpreti (ripeto, interpreti) nuovi diritti e doveri, valorizzando la contrattazione decentrata nel territoro e sul luogo di lavoro e la flessibilità contrattata sia la parola d’ordine. Detta così non sembra neanche difficile, purchė non ci si perda dietro slogan fumosi e datati, stanchi riti o improbabili quanto pericolosi, interventi legislativi. La rinascita intelligente, nemica giurata della decrescita felice, passa inevitabilmente da lì.
Valerio Gironi