Capita sempre che le comunità – scampate alle grandi tragedie della Storia – si rechino a rendere omaggio ai loro Santuari per invocarne l’aiuto nella ricostruzione di un futuro. Non c’è da stupirsi allora se, negli ambienti della Cgil, in queste settimane di passione e paura, si è fatto più volte riferimento all’esigenza di un (nuovo) Piano del Lavoro, rievocando così uno dei miti più gloriosi di questa grande organizzazione. Senza nulla togliere a quella pagina di storia della Cgil e del Paese, in realtà, il Piano del Lavoro fu (come si dice delle battaglie perdute) una causa troppo bella per essere destinata alla sconfitta. Addirittura per esserlo fin dall’inizio. Torniamo a quei tempi. I processi di ristrutturazione e di riconversione produttiva avevano causato una serie di licenziamenti nelle grandi aziende, affrontati da un movimento sindacale diviso, dope le scissioni della Cgil unitaria del Patto di Roma. Negli anni dell’immediato dopoguerra – in parallelo con un altro Piano di cui si è molto parlato in questi mesi (quello che porta in nome del segretario di Stato Usa, George Marshall) – furono gettate le basi del modello di sviluppo che avrebbe dovuto orientare la ricostruzione economica e la riconversione produttiva dopo i guasti dell’economia di guerra e dell’autarchia corporativa che aveva frenato la competitività dell’apparato produttivo e reso marginale l’agricoltura. La scelta strategica fu quella di ancorarsi alle scelte dei mercati internazionali – di quella parte del mondo che aveva mantenuto un’economia di mercato – orientati alla produzione di beni di consumo durevoli, esposti ad una domanda crescente da parte di milioni di persone desiderose di conseguire al più presto migliori condizioni di consumo e di vita dopo le privazioni degli anni di guerra. I bassi salari, la presenza di un “esercito di riserva” di due milioni di disoccupati e la crisi di un movimento sindacale diviso, rendevano competitive le nostre esportazioni. Furono, così, gettate le fondamenta di quel “miracolo economico” che di lì a pochi anni avrebbe portato il Paese a voltare le spalle alle distruzioni e alle miserie della guerra. L’espansione economica del decennio ‘50 fu sorprendente, realizzando tassi in misura tale che, cinquant’anni dopo, sarebbero stati definiti di tipo “cinese”. Il prodotto nazionale lordo a prezzi costanti salì – dal 1949 al 1953 – ad un tasso annuale del 6,2%, la produzione industriale aumentò ad un tasso annuale superiore al 10%; anche i livelli salariali e l’occupazione dell’industria aumentarono, ma non in modo adeguato all’apporto che i lavoratori avevano fornito allo sviluppo economico. Questo modello di sviluppo valorizzò necessariamente la struttura produttiva laddove esisteva, ovvero nel Nord del Paese. Gli interessi lesi, in particolare del Sud, trovarono una risposta parziale attraverso le riforme agrarie che attaccarono il latifondo e diedero vita alla piccola proprietà contadina. La Cgil contrastò questi processi, in nome della causa dei braccianti e del principio “la terra a chi la lavora”, tagliandosi così fuori dal movimento contadino che venne egemonizzato dalla Coldiretti gravitante nell’area democristiana. Ma la linea di condotta della Cgil, nei primi cruciali anni ‘50, fu ben più complessa. Schiacciata tra una sinistra all’opposizione e l’esigenza di assumere una strategia che rendesse in qualche modo credibile l’atteggiamento di intransigenza assunto per contrastare i processi di ristrutturazione e i licenziamenti di massa, il gruppo dirigente della Confederazione socialcomunista inventò e propose – nel suo Congresso del 1949 – il Piano del Lavoro, consistente in un programma di valorizzazione delle risorse interne e di espansione economica secondo un’impostazione vagamente keynesiana. In cambio, la Cgil si dichiarava disponibile ad una politica di moderazione salariale. Infatti, nella risoluzione votata dal Congresso stava scritto: “Il congresso dichiara che i lavoratori italiani sono pronti a dare il loro contributo diretto alla realizzazione di questo piano e che la Cgil è pronta a dare il suo appoggio ad un governo che dia le dovute garanzie per la sua attuazione”. Il Piano venne poi presentato, nel 1950, in due convegni nazionali: uno svoltosi a Roma nel febbraio, un altro a Milano nel giugno. Le iniziative raccolsero un’ampia partecipazione di personalità della politica e dell’economia e richiamarono l’attenzione dell’opinione pubblica. L’orientamento del Piano del Lavoro era totalmente alternativo ai processi di internazionalizzazione dei mercati, come corollario delle alleanze politiche e militari del mondo occidentale. Il Piano del Lavoro era l’ultima trincea di una guerra già perduta. Eppure, quello fu un momento alto nell’elaborazione della Cgil anche perché il Piano forniva respiro politico all’azione dei partiti di sinistra allora in estrema difficoltà, dopo la sconfitta del 1948. Va ricordato, tuttavia, che il Pci non gradì del tutto quella scelta che, ad avviso di parte del suo gruppo dirigente, rischiava di condurre il movimento su di una “deriva economicista”, che peraltro non avrebbe sovvertito il sistema economico – il Piano non si proponeva certo la fuoriuscita dal capitalismo – mentre avrebbe distolto le masse dalla lotta per il potere quando solo la costruzione di una società socialista avrebbe assicurato l’emancipazione del lavoro. L’elaborazione del Piano divenne un punto di riferimento per le lotte prive di reali prospettive in cui la Cgil era impegnata in difesa dell’occupazione. Restano sorprendenti, per chi scrive, la serietà e l’impegno politico con cui il sindacato promuoveva allora la sua iniziativa politica e portava avanti le proprie battaglie sempre nella ricerca di alleanze. Da quell’ esperienza, tuttavia, il sindacato dovrebbe aver tratto un insegnamento fondamentale. Nessun Paese si salva da solo contando sulla valorizzazione delle proprie risorse. Bisogna ricostruire un grande mercato basato sulla ripartizione internazionale del lavoro; e in quel contesto ridefinire le priorità e i punti cardine di un nuovo sviluppo su cui allocare le risorse disponibili nel quadro di stabili sistemi di alleanze politiche. Era questa, in fondo, l’intuizione del Piano Marshall, la cui forza non risiedeva soltanto nell’appartenenza dell’Italia all’Alleanza atlantica ma anche in programmi economici più convincenti e capaci di realizzare gli obiettivi.
Giuliano Cazzola