Durante i due mesi più critici dell’emergenza sanitaria/epidemiologica da coronavirus (marzo e aprile) la Commissione di garanzia ha deliberato una moratoria generale per gli scioperi nei servizi pubblici essenziali (provvedimenti del 24 febbraio e 26 marzo 2020), motivata con l’innegabile circostanza che le astensioni avrebbero interferito con le attività di prevenzione e contenimento del virus. L’Autorità, in fondo, ha richiamato e generalizzato, la clausola contenuta in quasi tutti gli accordi e/o le regolamentazioni dei singoli servizi, che prevedono, appunto, l’impegno a non proclamare e a revocare scioperi, in presenza di particolari eventi calamitosi.
Con l’inizio della c.d. fase due (4 maggio) la moratoria non è stata prorogata sul presupposto che l’emergenza da pandemia, non configura ormai un evento eccezionale e circoscritto in un ambito temporale, ma (purtroppo) una situazione destinata a protrarsi per un periodo indefinito, con riferimento al quale si è ritenuto, iniquo inibire, tout court, gli scioperi. La Commissione di garanzia è, comunque, intervenuta con una delibera di moral suasion, (30 aprile) per richiamare il senso di responsabilità delle parti sociali, affinché cerchino di risolvere eventuali situazioni conflittuali, soprattutto, sul piano del dialogo e del confronto.
Si è, così, inteso restituire al conflitto quella rilevanza che esso riveste nell’ambito delle relazioni industriali e nei comportamenti negoziali. È il concetto stesso di relazioni industriali che è, infatti, strettamente collegato con il fenomeno del conflitto: relazioni industriali come regolazione del conflitto, nell’accezione ampia, di origine anglosassone, che individua nel termine industry i vari settori delle attività produttive, ivi compresi i servizi. Uno dei più grandi studiosi di relazioni industriali del ‘900, Otto Kahn-Freund, scriveva che il conflitto anima le relazioni industriali e ne costituisce un punto di riferimento irrinunciabile. Lo sciopero rappresenta solo una fase del conflitto collettivo, spesso necessaria, ma che non ne esaurisce la nozione.
Il messaggio di fondo, dunque, appare chiaro: in questa delicata fase due, di ripartenza delle attività economiche il conflitto nei servizi pubblici essenziali non è escluso, ma, nella ratio del suo bilanciamento con i diritti dei cittadini utenti, dovrebbe svolgersi, soprattutto, in modo procedimentalizzato, attraverso il confronto e la composizione negoziale. Il ricorso allo sciopero rappresenterebbe l’extrema ratio, dopo aver esperito, infruttuosamente, un iter procedimentale.
Naturalmente, quello dei trasporti rappresenta uno dei settori più delicati dei servizi pubblici. In esso sono già stati proclamati, per il mese di maggio, scioperi nel trasporto urbano e in quello aereo (qui, in verità meno comprensibile, data la completa riduzione del servizio al solo cargo e ai voli straordinari e/o necessari, a seguito del divieto di spostamento dei cittadini tra Regioni). Comunque, indipendentemente da un giudizio di merito sulle ragioni degli scioperi, mi sembra opportuna, anche per quelli che (verosimilmente) dovessero essere proclamati in seguito, una rinnovata riflessione sui servizi minimi da garantire in questa particolare fase.
Come è noto, in condizioni normali, prima dell’emergenza, la soglia minima è stata individuata in due fasce orarie a servizio pieno, stabilite sulla base della maggior utenza dei cittadini. Tale soglia integra il 50% del servizio complessivo, al di sotto della quale, come stabilisce la legge 146/1990, non si può scendere.
Orbene, è stato stimato che l’esigenza del distanziamento tra le persone (elemento cardine della lotta al coronavirus anche e soprattutto nella fase due) limita già la capacità di carico di bus, vagoni metro, treni a lunga percorrenza e (quando sarà possibile) anche degli aeromobili, di oltre il 70% rispetto alla capienza normale. Ciò produce un fisiologico contingentamento degli ingressi in stazioni ferroviarie e metro e aeroporti, con l’inevitabile moltiplicazione dei tempi di attesa per i cittadini utenti. Sarebbe, dunque, ragionevole (ma non è superfluo dirlo) che la soglia minima del servizio, da garantire in caso di sciopero, debba essere riconsiderata con riferimento a tale riduzione della fruizione dello stesso da parte dei cittadini.
Se così è, la sola garanzia delle fasce orarie non appare, in questa fase, idonea ad assicurare il contemperamento tra diritto di sciopero e diritti dei cittadini utenti, proprio perché all’interno di esse il servizio non è più pieno, ma già di per sé ridotto.
Quale può essere una soluzione inspirata dal suddetto bilanciamento, che non sacrifichi il diritto di sciopero?
Innanzitutto, potrebbe essere ragionevole ipotizzare, sempre per la fase attuale, una revisione del limite di durata massima degli scioperi come attualmente consentito dalle discipline di settore (ad esempio, non superiore 4 ore). Dopo di che, da un’indagine sulla prassi, non risulta che nei servizi di trasporto, negli ultimi anni, tranne rarissime eccezioni, si siano avuti scioperi con un’adesione dei lavoratori tale da giustificare una riduzione del servizio del 50% (come si è detto, soglia al sotto della quale non si può scendere). Anzi, spesso astensioni proclamate da sindacati scarsamente rappresentativi, con adesioni tra il 4 e il 5%, hanno comunque comportato, se non la chiusura degli impianti, disagi ben maggiori di queste percentuali.
A ben guardare, dunque, la tecnica di contemperamento da utilizzare, nell’attuale fase due non dovrebbe essere tanto quella delle fasce orarie, quanto piuttosto quella che commisura la soglia dei servizi all’effettiva consistenza dello sciopero: di fronte a scioperi ai quali aderisce il 5% dei lavoratori, la riduzione del servizio pubblico non dovrebbe essere superiore alla stessa percentuale.
E come si può percorrere un tale obiettivo, in assenza di regole certe sulla rappresentatività sindacale?
Sarebbe risolutiva la previsione per il lavoratore, anche limitatamente al periodo in questione, di un dovere di comunicazione preventiva circa la sua partecipazione allo sciopero. In tal modo, avendo una ragionevole certezza del numero dei lavoratori che si asterranno, sarebbe più facile pretendere dalle aziende un adeguamento del servizio all’effettiva consistenza dello sciopero.
In alternativa, non rimane che rimettere il tutto alla previsione dell’azienda, affinché stabilisca i servizi minimi sulla base dei dati di adesione registrati nel corso di precedenti scioperi effettuati dalla stessa organizzazione sindacale proclamante. A tal fine, si potrebbe anche ridimensionare la responsabilità dell’azienda, in caso di errore di valutazione di fronte ad uno sciopero che dovesse raccogliere più adesioni del previsto.
Sono possibili soluzioni che non vogliono negare il valore del conflitto, bensì riconoscere ad esso e allo sciopero il valore che effettivamente esprimono.
* Come sempre, le opinioni in questo blog sono espresse a titolo personale, come studioso della materia.
Giovanni Pino