Giuliano Cazzola definisce splendida la battaglia (perduta) per il Piano del Lavoro, “una causa troppo bella per essere destinata alla sconfitta”.
Ne esce l’immagine di un gruppo dirigente sì generoso, ma troppo ingenuo che non aveva compreso il giro del fumo in una situazione mondiale dove le tendenze e i rapporti di forza non consentivano altro che assecondarne gli sviluppi accontentandosi delle briciole.
Per meglio valutare le qualità del gruppo dirigente Cgil del tempo ci aiuta Pietro Merli Brandini (studioso e autorevole dirigente Cisl), mai tenero nella relazione con la Cgil e del quale ho apprezzato l’opera e l’amicizia. A proposito della ristrutturazione dell’apparato industriale dell’immediato dopoguerra così definisce l’operato della Cgil: “Licenziare fu temerario ai limiti dell’immaginabile. Eppure fu fatto, fuori dall’influsso della legge che all’epoca godeva di scarsa credibilità. Nell’assenza le parti convennero sulla necessità di contemperare le esigenze del risanamento economico delle aziende con la necessità di non aggravare il fenomeno della disoccupazione. Si provvide a graduare i licenziamenti, assicurando ai lavoratori un minimo di assistenza tramite la cassa integrazione e l’esecuzione immediata di lavori pubblici già progettati. In tre scaglioni, dal dicembre 1945 al 31 marzo 1946, si consentono alleggerimenti di organico di circa il 13% dei dipendenti “..………….”. Questo processo non fu lineare: le lotte per contrastare i licenziamenti durarono ben oltre il 1946 e furono le più aspre. Vi furono esplosioni a livello locale. Vi furono conflitti politici e sociali. I sindacati riuscirono sempre a mitigare le pretese dell’industria e delle aziende, contenendo al massimo il numero dei licenziati assicurando al massimo le condizioni di sostegno a quelli inevitabilmente sacrificati. La gestione sindacale non accontentò tutti, ma mai venne meno il consenso generale dei lavoratori nei sindacati”. E ancora: “Questo fu il ruolo di una libera contrattazione tra contraenti forti, con personalità come quelle di Di Vittorio e Costa”. (da DIRITTO E ROVESCIO, Edizioni lavoro 2002). Ben vero che quella descritta è la Cgil ancora unitaria, ma pare plausibile a qualcuno che la Cgil scaturita dalla scissione potesse essere una entità incapace di capire dove andava il mondo?
Ancora da Giuliano: “Questo modello di sviluppo valorizzò necessariamente la struttura produttiva laddove esisteva, ovvero al Nord del Paese. Gli interessi lesi, in particolare del Sud, trovarono una risposta parziale attraverso le riforme agrarie che attaccarono il latifondo e diedero vita alla piccola proprietà contadina. La Cgil contrastò questi processi, in nome della causa dei braccianti e del principio “la terra a chi la lavora”, tagliandosi così fuori dal movimento contadino che venne egemonizzato dalla Coldiretti gravitante nell’area democristiana”. Quel che ho capito io è che la battaglia per quella riforma agraria ha visto la Cgil come protagonista di primo piano anche con grandi sacrifici perfino di sangue di suoi dirigenti, compreso l’eccidio mafioso di Portella della ginestra. Con l’esito di smantellare il feudo latifondista assegnando terre a braccianti e contadini. E con uno strascico politico ben doloroso alla luce di una gestione della riforma che in troppi casi aveva assegnato terre a chi non aveva combattuto lasciando a bocca asciutta tanti che si erano esposti in prima linea. Era sbagliata la parola d’ordine “la terra a chi la lavora”? Poteva comprendere l’esito della piccola proprietà contadina come quello di grandi imprese a gestione cooperativa. Che l’obiettivo sottostante alla parola d’ordine fosse la grande impresa capitalistica alla quale poter contrapporre la purezza della lotta di classe antisistema dei braccianti, mi pare semplicemente improbabile.
Aldo Amoretti