A 50 anni dall’approvazione dello Statuto dei lavoratori è opportuno interrogarsi sulla sua attualità e sulle sue prospettive.
La legge 300 venne approvata il 20 maggio 1970 sull’onda delle grandi lotte operaie dell’autunno caldo dell’anno precedente, per volontà del ministro socialista del Lavoro Giacomo Brodolini, che non riuscì a vedere completata la sua “creatura” politica, portata a compimento dal suo successore Carlo Donat-Cattin ed elaborata attraverso la raffinata cultura giuslavoristica di Gino Giugni e Federico Mancini.
L’idea dello Statuto dei lavoratori venne lanciata dal leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio nell’ottobre del 1952, e divenne uno dei punti programmatici fondamentali del partito socialista al tempo del primo centro-sinistra.
Come ricordò Giugni “il fine che si proponeva lo Statuto era quello di liberalizzare il regime di fabbrica, rimuovendo le strutture di conduzione autoritaria prevalenti nell’industria italiana”. Con la legge n. 300 venne introdotto, infatti, un nuovo e diverso sistema di garanzie dei lavoratori rispetto al passato, non più destinatari di tutele quali soggetti deboli nel rapporto di lavoro ma nell’ambito dell’organizzazione produttiva.
Lo Statuto, sotto il profilo dottrinale, rappresentò un equilibrio mirabile tra la cultura lavoristica che sosteneva l’esigenza della “costituzionalizzazione delle imprese” e le teorie promozionali dell’azione sindacale sui luoghi di lavoro, per dare cittadinanza piena alle organizzazioni dei lavoratori ove si svolgeva il conflitto industriale, attraverso un’ampia gamma di diritti di sostegno.
E non vi è dubbio che lo Statuto sia stato uno strumento formidabile di estensione dei diritti dei lavoratori e di allargamento della presenza e del ruolo dei sindacati nelle aziende, ma che abbisogna di un adeguamento al nostro tempo.
Disse, davvero profeticamente, uno dei leader storici del sindacalismo italiano, Giorgio Benvenuto, in occasione del ventennale della legge n. 300: “lo Statuto dei lavoratori esce così dalla fabbrica, entra nella società per espandere i suoi principi di difesa dei diritti dei deboli e della loro dignità”, come dire che già nel 1990 si avvertiva l’esigenza di ridefinire il campo delle sue tutele, ampliandole e rimodulandone.
Ai giorni nostri il sistema dei diritti del mondo del lavoro non può non tenere conto, ad esempio, dei cambiamenti nella stessa nozione di subordinazione e delle nuove figure di lavoro autonomo meritevoli di tutele, in conseguenza dei profondi mutamenti provocati nei sistemi produttivi e nell’organizzazione sociale dalle nuove tecnologie. Si pensi ai lavori in piattaforma e si guardi a come cambierà il modo di prestare le attività lavorative a seguito della pandemia da covid-19, con la diffusione dello smart-working, istituto che abbisogna senza indugio di immediati interventi regolativi sui profili della formazione, della sicurezza, della dotazione degli strumenti informatici e della disconnessione.
E’ del tutto evidente, quindi, che celebrare lo Statuto deve significare riproporne il suo ruolo in chiave evolutiva, in particolare per definire tutele ai nuovi e in gran parte fragili “lavoratori digitalizzati”, così come appare non in linea con le dinamiche sindacali che l’attualità ci propone, la modalità di costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, legata alla visione del reciproco riconoscimento contrattuale tra associazioni datoriali e organizzazioni dei lavoratori in una logica esclusiva, che lede i principi di libertà sindacale e di diffuso pluralismo.
C’è bisogno, in attesa di una “legge sindacale” fondata sull’equilibrio con l’autonomia collettiva e il diritto vivente, di una novella dell’art. 19 della legge n. 300, come proposto di recente dal sindacato Confial per sostituire alle rappresentanze sindacali aziendali derivanti dal meccanismo di nomina, quelle unitarie, le r.s.u. allo stato previste da accordi interconfederali sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil con Confindustria e altre associazioni d’impresa, per consentire ai lavoratori di votare per scegliere i propri rappresentanti attraverso liste di tutte le organizzazioni presenti nelle aziende, che intendono contendersi liberamente il consenso del mondo del lavoro.
I “padri” politici, sindacali e teorici dello Statuto lo avevano concepito come strumento di libertà e non di un mondo del lavoro assoggettato, sotto il profilo della rappresentanza, ad una sorta di corporativismo di ritorno.
Maurizio Ballistreri Professore di Diritto del Lavoro nell’Università di Messina – Direttore dell’Istituto di Studi sul Lavoro