Nell’intervista concessa a Massimo Mascini, Sergio Cofferati, grazie alla sua autorevolezza di antico leader della Cgil, ha giustamente risuscitato il concetto e le prassi di concertazione. Una parola che sembrava dimenticata e rimossa, ma di cui Cofferati ha ricordato tutta l’importanza potenziale.
Alla radice della dimenticanza degli ultimi anni si trova l’evidente sottovalutazione dell’importanza delle funzioni assolte dalle organizzazioni di rappresentanza. Queste non solo restano in campo più ‘resilienti’ di quanto si tenda a pensare, come ha sottolineato Paolo Feltrin, ma possono dare un contributo importante al perseguimento di alcuni ‘beni comuni’, come accaduto appunto con il Grande accordo del 1993.
Anche se l’avversione verso la concertazione viene da lontano, la sua eclisse è dovuta soprattutto alla spettacolare scomunica di Renzi, cosa che ha contribuito a renderla un oggetto non gradito anche all’interno del centro-sinistra.
Quella posizione era animata dalla preoccupazione non solo di rilanciare la centralizzazione e la gerarchia nelle decisioni politiche (specie a vantaggio del premier), ma anche di inseguire sul loro terreno le diffuse pulsioni verso la cosiddetta ‘disintermediazione’ (animate in particolare dal Movimento pentastellato).
Varrà la pena di ricordare come gli esiti di quella battaglia politica si sono rivelati molto deludenti e largamente perversi, in quanto assai distanti dalle intenzioni: le decisioni assunte hanno avuto effetti modesti e non sono state supportate da adeguato consenso. L’abbandono del rapporto con i sindacati, oltre che più in generale con le parti sociali, ha condotto all’isolamento sociale del principale partito di centro-sinistra, e al suo clamoroso divorzio con la propria base sociale elettiva, quella costituita dalle componenti più deboli del mondo del lavoro.
In uno scenario drammatico come quello che stiamo attraversando – dalla caduta del Pil a quella dell’occupazione – il richiamo alle possibili virtù della concertazione acquista un elevato sapore simbolico. Appare in gioco la capacità di mobilitare le migliori energie del mondo produttivo e del lavoro intorno ad obiettivi comuni di risanamento e di rilancio. Non si tratta di chiamare in causa piccoli aggiustamenti o un accordicchio tampone: la sfida è quella di un patto sociale di grande portata e spessore, quello che in altre epoche veniva etichettato come ‘Accordo fondamentale’ o come ‘Grande compromesso’.
Ma allora l’interrogativo diventa: esistono attualmente le condizioni per immaginare un Patto dotato di questa ambizione?
La concertazione, come è noto, sin dalle sue prime apparizioni scientifiche, si presentava come un singolare matrimonio triangolare, che richiedeva la paziente ricerca – appunto concertata – della quadratura tra punti di vista e esigenze diverse e non automaticamente convergenti.
Questa quadratura nel nostro Paese è riuscita meglio nei momenti di difficoltà e di emergenza, come è stato il passaggio del 1993. Quando cioè prevale la spinta ad andare oltre gli interessi più immediati in nome dell’affermazione di scopi comuni.
Ma appunto si tratta di un atipico matrimonio a tre che richiede un sentire comune a tutti gli attori coinvolti. Anche nel 1993 esso non avvenne spontaneamente, ma molto del merito fu dovuto all’autorevolezza del governo, che investì in quella direzione il capitale accumulato intorno alle personalità di Ciampi e Giugni.
Ma proprio qui vediamo tutte le difficoltà di tale disegno, necessario ma anche non facilmente praticabile.
Diamo per scontato che i sindacati siano i più pronti e disponibili a svolgere la loro parte dentro questa svolta (anche se debbono ancora dare prova di farlo con la dovuta carica innovativa).
Ma osserviamo gli orientamenti degli altri due attori, altrettanto necessari contraenti del matrimonio triangolare.
Lo stesso governo non sembra abbia maturato completamente questa convinzione, come in effetti lo stesso Cofferati rammenta. A lungo la letteratura scientifica ha sottovalutato il ruolo che l’attore ‘terzo’ – appunto il governo – svolge all’interno del negoziato triangolare al fine di condurlo a buon fine. Un ruolo davvero essenziale e spesso decisivo, come mostrano proprio le vicende italiane.
Nella fase attuale tale strada non sembra spianata, anche a causa dei tentennamenti con i quali il governo ha gestito l’emergenza. Chiaramente bisognoso del consenso delle grandi organizzazioni, ma nello stesso tempo incerto sulle modalità e sugli strumenti, i quali non hanno effettivamente configurato l’equivalente dei migliori processi concertativi. Continua ad essere coltivata nell’attuale retrobottega politico l’ipoteca di fare a meno o di non coinvolgere del tutto le rappresentanze sociali: frutto delle non risolte avversioni grilline, ma anche dell’evanescenza del Partito democratico. La conseguenza per l’azione governativa finora è consistita nel collocarsi al vero polo opposto – e sicuramente patologico – rispetto a quello dell’auspicata disintermediazione. Infatti l’approccio ambiguo, che è stato adottato, si traduce nel metodo della cattiva mediazione permanente con tutti i microinteressi che aspirano a giocare un ruolo. Quella mediazione lenta ed ipertrofica, che si mostra incapace di selezionare gli obiettivi portanti e di fissare gli indirizzi prioritari, e dunque finisce con il dipendere da ogni stormire di fronde e da qualunque piccolo mal di pancia. Ma il compito della concertazione – quella bene fatta e non presentata in modo caricaturale – consiste proprio in questo: nell’’intermediare’ intorno alle grandi questioni, nell’ effettuare sintesi convincenti, e nell’assicurare un impatto efficace e diffuso delle scelte assunte anche nelle pieghe della società (per evocare una famosa formula di Togliatti).
Dunque su questo versante dobbiamo sperare che l’attuale governo si dimostri in grado di dare vita a quel colpo d’ala, che lo porti oltre la soglia dell’impegno gestionale sul quale si è fin qui attestato. Potrebbe essere il suo stesso interesse se vuole mettere a buon frutto il consenso raccolto nella fase acuta dell’emergenza: ma quanto a questo avremo modo di vedere.
Ma anche sul versante dei datori di lavoro si intravedono nubi e orientamenti tutt’altro che lineari.
Non casualmente Cofferati si mostra perplesso in relazione alle prime mosse della nuova Presidenza di Confindustria. Trattandosi sin qui di dichiarazioni non sistematiche appare ragionevole attendere quando invece saranno disponibili posizioni ufficiali più articolate. Appare anche plausibile la rivendicazione che viene dall’attore confindustriale di poter giocare un ruolo da protagonista più ambizioso di quello esercitato nel recente passato, ma appropriato alle fasi di grandi trasformazioni, come dobbiamo considerare quella in corso. Vale in questo caso una considerazione analitica. Nel corso degli ultimi decenni Confindustria, nonostante l’uscita dolorosa di Fca, ha svolto un ruolo di raccordo e di rappresentanza di larga parte del mondo imprenditoriale italiano (come d’altra parte hanno fatto anche gli altri attori che alimentano l’associazionismo datoriale). Questo ruolo si è tradotto in una serie di importanti Accordi interconfederali raggiunti con le tre Confederazioni su questioni centrali, fino a quello del 2018 che ha ridisegnato le regole del gioco delle relazioni industriali. Si è trattato di una lunga stagione di rilancio della bilateralità e di riaffermazione della sovranità delle due parti sociali sulle materie di loro competenza: in una fase di distanziamento dall’arena politica, di disinteresse da parte di molti soggetti politici, e in presenza di un attivismo legislativo che è arrivato anche alle porte delle relazioni industriali. Questa bilateralità ha affrontato temi nuovi (come rappresentanza, partecipazione, formazione, welfare), ma si è imperniata sulla contrattazione collettiva, di cui le due parti hanno garantito la prosecuzione non solo all’insegna dell’ordinaria amministrazione. E hanno ribadito la pari importanza dei due livelli negoziali, nella ricerca di un equilibrio difficile, ma comunque vitale ai fini del funzionamento del nostro assetto. Questa stagione si è tradotta in una sorta di non dichiarato ‘patto dei produttori’ che ha fatto di necessità virtù, provando a mettere a frutto l’ostilità la freddezza o l’ingerenza del sistema politico. Sarebbe quindi utile che i passi futuri in direzione di un maggiore protagonismo, che sono legittimi, non mettessero in discussione queste acquisizioni, ma le incorporassero dentro una cornice strategica più robusta. Se la Confindustria ha retto in questo decennio, questo si deve anche all’essersi trovata nella stessa barca dei sindacati. E dunque bene a nuove direzioni di marcia, ma possibilmente senza il rischio di affondare la barca.
Una di queste direzioni può consistere in una concertazione dallo slancio ritrovato: per passare da un patto tra le sole parti ad un vero e proprio patto sociale di lunga gittata. E questo sarà un banco di prova dei diversi attori. Ma, ad un patto di questa portata, oggi si chiede di occuparsi in primo luogo dei segmenti più deboli del mondo produttivo e del lavoro. Non solo per tappare i buchi e ridurre le criticità, ma per rilanciare un assetto produttivo meno fragile e precario. Quindi non solo tutela statica (necessaria) degli attuali drammi sociali, ma una vera e propria azione di ridisegno, capace di non dipendere troppo dagli interessi immediati.
Non dimentichiamo però come il quadro dentro il quale si svolge questa partita è quello di una crescente rilevanza (quantitativa) dell’intervento pubblico. Già prima della pandemia erano molti gli studiosi a chiedere che lo Stato assumesse un ruolo maggiore per fronteggiare l’aumento delle disuguaglianze e l’instabilità dello sviluppo, e quindi operasse come ‘Big State’. Nel suo ultimo libro che ruota intorno al rilancio del ‘capitalismo progressista’ (quindi chiaramente non anti-mercato o anti-capitalista) Stiglitz dedica ampio spazio al rafforzamento di una azione collettiva imperniata sul ripensato ed ampliato intervento dello Stato. Quello che era già importante prima del Coronavirus è diventato ora necessario. Ma il punto è: come? Appare naturale che lo Stato conti di più, ma con quale ampiezza e con quali strumenti? Se Cofferati, come peraltro anche Prodi, non esclude la partecipazione temporanea al capitale delle imprese, si riaffaccia negli ambienti che contano la tentazione pratica di assegnare al pubblico solo il ruolo di portatore d’acqua (soldi) per provvedere a riparare i fallimenti del mercato, lasciando le leve importanti nelle mani precedenti. In questo scenario ovviamente non è possibile escludere a priori un ruolo più importante del pubblico anche nella proprietà. Ma questa opzione deve risolversi chiaramente in un mezzo, appunto temporaneo, per favorire il vero fine: quello di restituire allo Stato (nelle sue diverse articolazioni) la funzione di indirizzo strategico dello sviluppo. Come è stato scritto con fondamento (Maranzano e Romano su Sbilanciamoci) si tratta in primo luogo di recuperare la missione dell’intervento pubblico, costruendo intorno all’agente Pubblico quello che viene definito come un paradigma tecno-economico ‘annidato’, che favorisca scelte di interesse generale in relazione ai settori considerati di interesse strategico (dai settori dei trasporti e telecomunicazioni a quelli ad alta intensità tecnologica e così via). Allora perché appare giusto anche in questo caso il richiamo alla concertazione? La concertazione, se adottata in modo sapiente, può essere a ragione considerata – e lo è nella letteratura riguardante i fondamentali di questo metodo (si veda Streeck) – come un buon antidoto ai rischi delle derive statalista e burocratica, che essa può essere in grado di correggere e compensare sul piano sociale. La forza della concertazione, come ci ricordano alcuni testi divenuti classici, risiede proprio nel fatto di operare non solo come correzione del mercato, ma anche come correzione dello Stato e dei governi.
Mimmo Carrieri