La parola insorgenza ha un doppio significato. Può indicare il manifestarsi di un morbo oppure una sollevazione popolare. Nel primo caso il riferimento è a una malattia del corpo, nel secondo ad una patologia sociale. Potremmo aggiungere una terza accezione nel campo della psicologia per indicare un improvviso mutamento dell’animo, un’escrescenza di paura e di rabbia. Tre piani diversi, tra loro collegati quando si esaminano complessi fenomeni di massa come quelli indotti da carestie, epidemie, guerre. Cambiamenti repentini che insidiano il convivere civile.
La storiografia ricorre a questi concetti per raccontare le ribellioni antigiacobine e postrisorgimentali. Un arco che va dalla Vandea alle insurrezioni e al banditismo nel sud d’Italia. Non siamo certo a questo, non si sentono le grida feroci di contadini in armi, non suonano le campane sanfediste. Eppure, i sentimenti di ripulsa nei confronti dello Stato ricordano quelli che allora animavano le rivolte contro l’autorità costituita.
È come se l’odio riversato sulle élite che guidarono la repubblica partenopea non fosse mai scomparso e fluisse come una corrente velenosa emergendo nei momenti di forte crisi. La nascita del fascismo ha avuto connotati del genere. Mario Pagano ed Eleonora Fonseca Pimentel furono impiccati con la stessa perversa motivazione con la quale sono stati uccisi Giacomo Matteotti e i fratelli Rosselli. Un filo rosso sangue lega gli illuministi schiacciati dalla reazione borbonica e clericale alle vittime del Regime. Tutti nemici del “popolo”. Un abominio alimentato da coloro che il potere temevano di perderlo di fronte alle istanze egualitarie e sono riusciti a strumentalizzare le masse a proprio vantaggio. Il sovranismo ha le stesse dinamiche.
Per due mesi il Covid 19 ha costretto la gente a chiudersi nelle proprie case mettendo la sordina alle becere teorie filo dittatoriali. Anzi, la consapevolezza che il virus non può essere fermato con i muri e con le frontiere e allo stesso tempo l’ammissione che la sanità pubblica non è la greppia dei partiti ma un caposaldo della democrazia, avevano prodotto l’illusione di una virtuosa resipiscenza.
Nulla di tutto questo. Le insorgenze covano dietro le mascherine. Artigiani, commercianti, ristoratori stanno diventando, assieme con i giovani disoccupati, sfruttati, senza futuro, massa di manovra come furono i reduci, la piccola borghesia e il sottoproletariato dopo la Prima guerra mondiale. La destra estrema fomenta organizza e guida le proteste sotto lo sguardo compiaciuto della destra parlamentare che spera di lucrare consensi e voti. Il negazionismo dell’effettiva pericolosità della pandemia e le teorie complottiste sulla diffusione del virus si intrecciano e si consolidano a vicenda. Anche nel sottobosco degli ultrà del calcio, orfani del campionato, si sentono rullare i tamburi che chiamano alla mobilitazione per un presunto riscatto del nostro Paese. La malavita organizzata e l’usura sono in grande spolvero.
La sinistra, identificata con l’establishment, rischia di pagare il prezzo più alto. Qui non si tratta di difendere il governo Conte o di augurarsi l’arrivo di Mario Draghi o di un qualsiasi Pincopallo: è in gioco, ancor più di quanto fosse prima del lockdown, la fiducia nelle Istituzioni. Il prestito di 6,3 miliardi di euro alla ex Fiat, pur legittimo, rischia di essere indifendibile di fronte allo sdegno di chi aspetta da marzo la cassa integrazione. Fare presto, prestissimo, ad immettere liquidità spazzando via tutti i nefasti vincoli burocratici. In questo momento il debito pubblico e le compatibilità economiche sono il minore dei problemi. Altrimenti lo tsunami politico paventato da alcuni commentatori sarà inevitabile. Il saggista inglese Timothy Garton Ash ha l’incubo che nel giro di non molto tempo possa andare al potere un populista come Matteo Salvini o persino uno peggio di lui.
Il popolo, ammoniva il colombiano Nicolas Gomez Davila, “non elegge chi lo cura, ma chi lo droga”.
Marco Cianca