Sono tanti gli autorevoli commentatori e gli economisti che si stanno cimentando su quando e come avverrà la ripresa economica e quale forma assumerà. Quasi tutti sono certi che nel 2021 ci sarà un forte rimbalzo dei tassi di crescita ed il dubbio è se la ripresa sarà a V a U o, per taluni Paesi, come il nostro, a L. Considero questi esercizi previsionali non solo fuorvianti ma anche di disarmante banalità.
Iniziamo invece col mettere intanto un po’ di ordine. Perché è del tutto inutile cercare di buttare il cuore a una fase due, di tipo economico, se prima non si analizza quale disastro reale abbia combinato sulla salute economica del mondo, questa pandemia. Sapendo, per inciso, che, dal punto di vista sanitario, per uscirne servirà un vaccino, mentre per l’economia di vaccini non ne esistono e quindi la guarigione sarà comunque molto più lunga.
Questa crisi, inoltre non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella pure terribile del 2008. Quella passerà alla storia come una gravissima crisi congiunturale ma niente di più. Questa del 2020, invece ha soltanto due riferimenti nel passato: il ’29 e quella dell’immediato dopoguerra. In entrambi i casi, infatti, si registrò una caduta vertiginosa di tutti gli indici di ricchezza insieme ad una dimensione di carattere mondiale, esattamente come quella in atto oggi.
Ed entrambe provocarono due effetti precisi. Il primo, quello che si definisce lo scollamento del mondo. Il secondo, di conseguenza, l’avvio di un lungo periodo di isolazionismo economico. Perché questo? Perché quando la recessione va così in profondità, la prima conseguenza è che il mondo si ferma e con esso si ferma il commercio mondiale, cade quindi il saggio delle esportazioni, si alzano barriere protettive alle importazioni, si accorciano le catene del valore e si ribaricentrano le produzioni.
Insomma, si può anche dire che, quando brucia una sola casa, è possibile che insieme ai vigili vengano anche i vicini a dare una mano. Ma quando vanno a fuoco tutte le case, ciascuno pensa soltanto a salvare il più possibile la propria per poi impegnarsi a ricostruirla.
Pochi ricordano che l’effetto isolazionista negli Stati Uniti dopo la caduta di Wall Street, nonostante il keynesismo del democraticissimo New Deal roosveltiano, fu talmente profondo che, nonostante il nazismo e Pearl Harbor, la dichiarazione di guerra passò al Congresso con un solo voto a favore. D’altronde questi identici epifenomeni sono già oggi tutti sotto i nostri occhi.
L’epifenomeno ad esempio della ferocia competitiva che ogni giorno di più cresce tra gli Stati Uniti e la Cina.
Infatti la Cina, come ha confermato l’Oms, prima ha avvertito in ritardo il mondo sul contagio, temendone per sè conseguenze economiche e commerciali e poi, essendone invece uscito due mesi prima di tutti gli altri, ne sta approfittando per conquistare quote di mercato e vantaggi competitivi.
Gli Stati Uniti, che invece sono ancora nell’occhio del ciclone sanitario, stanno ora reagendo con tutta la ferocia necessaria, per cercare di non concedere loro troppi vantaggi e, per questo, di anticipare il più possibile la ripresa industriale anche al costo della vita stessa dei propri cittadini.
D’altronde questo clima di ferocia competitiva sarà quello che ci accompagnerà per un lungo periodo di tempo, semplicemente perché la caduta vertiginosa del pil mondiale ha provocato la riduzione complessiva della ricchezza prodotta e l’accaparrarsi di parti di essa, sarà solo il risultato di una lotta senza esclusione di colpi tra tutti i principali competitori mondiali. Il secondo epifenomeno sarà quello dell’isolazionismo e del sovranismo economico.
Temo che da questo punta di vista, non ci sarà grande differenza se negli Stati Uniti nelle prossime elezioni prevarrà Trump o Biden. La differenza certamente ci sarà sul terreno dei valori sociali e sui sistemi di protezione, ma temo non su quello economico. E questo non per pessimismo, bensì per realismo.
Soltanto l’America di Kennedy non lo fu, ma grazie al boom economico di quegli anni, mentre isolazionista lo fu, come detto, l’America di Roosvelt, così come quella di Clinton negli anni novanta e anche quella più recente di Obama per fronteggiare la crisi del 2008.
D’altronde anche la Cina conoscerà un rallentamento del suo espansionismo in conseguenza dei suoi comportamenti inaccettabili sul piano sanitario oltre che su quello democratico, che hanno comportato la caduta verticale del suo tasso di credibilità e di fiducia. Alla Cina costerà cara la sua voglia smodata di egemonia che ha fatto pagare prezzi così drammatici a tutto il mondo. Mentre gli Stati Uniti sceglieranno di isolarsi, la Cina invece, all’opposto, sarà costretta ad un ripiegamento e ridimensionamento isolazionista.
L’Europa, su quanto sta avvenendo nello scenario mondiale di questi mesi, ci si ritrova dentro fino al collo. Ha, per questo, dovuto prendere atto della rottura definitiva ed epocale del mondo che c’era prima e si sta preparando al prossimo nuovo ordine mondiale che verrà.
Se non si comprende questo dell’Europa, di essa, di quanto sta accadendo, si rischia di non capire proprio nulla. Purtroppo da noi tutta la discussione è fuorviante perché finora si è limitata essenzialmente ai nominalismi e alla quantità degli aiuti.
Mes si Mes no e quanti soldi ci danno e in che modo. Il resto sembra interessare molto meno. Invece quello degli aiuti, a Bruxelles, come a Berlino o Parigi, è solo la conseguenza di una scelta, non la scelta stessa. E per questo, una conseguenza non solo solidaristica, bensì strategica.
La scelta di campo avvenuta in Germania, che ha portato quel Paese ad approdare a decisioni inusitate come quella del varo di un debito comune, cioè gli eurobond, non è il frutto di un giro di valzer politico, ma l’esito di un durissimo e contrastato confronto e scontro avvenuto in tutti questi ultimi mesi dopo la pandemia. Uno scontro di cui fa anche parte la stessa sentenza di Karlsruhe, provocata dal leader economista dell’Afd e dalla destra estrema della Csu bavarese, ma che, paradossalmente ha avuto l’effetto di determinare l’accelerazione di una nuova e strategica scelta di campo non solo nelle forze politiche, Cdu, Verdi e Spd, ma quel che più conta, nel Governo, nel Bundestag, nella Bundesbank che ha approvato tutte le ultime scelte, comprese quelle di ieri, della Bce all’unanimità oltre che nella Bdi (la Confindustria) e nel Dgb (il sindacato).
La Germania (con la Francia) ha cioè preso atto che, nel nuovo ordine economico, per un Paese che esporta il 41% del Pil, non si può più stare a mezza via tra un atlantismo che non c’è più e un orientalismo di marca cinese che è mosso prevalentemente da interessi egemonici, economici e politici.
La Germania, la Francia e le principali istituzioni europee( Commisione, Parlamento e Bce) hanno per questo compiuto una scelta di fondo di natura strategica, avendo definitivamente compreso che nel mondo scollato di oggi, l’unico spazio competitivo per l’Europa è quello di essere più autonomi, più sovrani, più indipendenti e per questo, di conseguenza, anche più integrati.
Indipendenza competitiva su cosa? Intanto su un nuovo modello di priorità economiche come lo sviluppo sostenibile e l’innovazione digitale come gli asset vincenti della competizione che verrà. Per questo tutto il prossimo bilancio europeo, così come tutti gli eurobond che arriveranno con il Next Generation Fund, verranno spesi e vincolati solo su questi due obiettivi. Inoltre la messa in campo di due altre operazioni di fondo che sono il reshoring industriale e quello farmaceutico.
La sospensione per almeno sei anni della clausola degli aiuti di Stato ha come fine strategico, quello di non affidare più al mercato la ricostruzione produttiva, ma di dare allo Stato il ruolo di soggetto di politica e di orientamento industriale, proprio come avvenne con il New Deal e con il piano Marshall nelle altre due crisi equiparabili.
Il nuovo piano industriale varato dalla Bayer, ad esempio, ha deciso che farà meno bionutrizionismo e tornerà alla produzione diretta dei farmaci che invece, negli ultimi anni aveva completamente delocalizzato in Cina. Così come il Golden power per le industrie significa da una parte il rafforzamento dei sistemi di protezione a livello nazionale per evitare lo shopping speculativo delle nostre imprese e dall’altra, finalmente, la costruzione di campioni europei, come sta avvenendo nel riavvio delle scelte di fusioni nell’automazione, nella softwaristica e nella cantieristica, grazie alla revisione avviata della famosa legge europea sulla concorrenza.
Gli aiuti quindi, nella loro doppia versione, quelli per l’emergenza per il 2020, pronti dal 1 giugno e cioè la Bei per l’industria, il Sure per il mercato del lavoro e il Mes per la sanità e poi il Next Generation invece per la ricostruzione e lo sviluppo economico, dal 2021, sono la pura derivata di questa nuova collocazione competitiva.
L’Italia è copiosamente beneficiaria di questi aiuti nell’ordine di oltre 250 miliardi netti, se accedessimo a tutti questi strumenti, più altrettanti (240mld) messi in campo dalla Bce per la protezione monetaria. Ma, attenzione, lo è per una scelta politica strategica e non solo per mera solidarietà o perché abbiamo una filiera integrata nella subfornitura e la componentistica. Lo è invece perché purtroppo siamo l’anello debole dell’Europa e il suo malato più cronico.
Ma un’Europa che ha scelto la via dell’indipendenza come la condizione per competere nel mondo post virus, non può permettersi di rischiare che salti tutto perché proprio il suo anello più debole, si spezza. E’ questa una via in discesa? Affatto. E’ una linea difficile che ha incontrato e incontrerà molte e durissime resistenze. Lo si è visto e lo si vedrà ancora nel prossimo Consiglio europeo del 19 giugno che ritengo, probabilmente, non sarà in grado di giungere ad una decisione conclusiva.
E’ uno scontro tra due modelli di Europa che la pandemia sanitaria ha accelerato. L’Europa integrata e federale e quella intergovernativa.
La scelta del Next Generation fund è chiaro cosa comporti. Se fai un debito europeo poi a quel livello lo devi ripagare. Quella scelta, gli eurobond, portano ineluttabilmente poi a entrate fiscali europee (che siano sulle emissioni nocive, sulle plastiche o sui giganti del web) e quindi i primi lineamenti di una fiscalità europea la quale condurrà ineluttabilmente ad un soggetto, ad un ministro delle finanze europeo per gestirla. Alcuni Paesi è su questo che non sono d’accordo.
La frugalità per favore lasciamola alla dietistica, non alla politica. E ad est, l’opposizione polacca, ceca o ungherese sta perché la scelta di una crescente integrazione, spezzerebbe quella loro lunga rendita di posizione post caduta del Muro, che gli ha permesso di vivere e di prosperare grazie ai Fondi europei ma di fare anche tutto ciò che si vuole, al proprio interno, perfino sul versante delle garanzie civili e democratiche.
Se ci si riflette solo per un attimo, si può anche vedere che già oggi un’Europa federale esiste ed è in campo. E’ l’Europa uscita dalle elezioni di un anno fa, in cui la destra populista venne pesantemente sconfitta.
Quel mandato democratico ha già creato un Parlamento federalista che a sua volta ha eletto una Commissione federalista che a propria volta ha nominato, dopo Draghi che già lo era, una presidente della Bce federalista.
Lo spostamento della Germania su questa linea (basta solo andarsi a leggere i contenuti del documento congiunto con la Francia di qualche giorno fa) dà a questo fronte un’accelerata possente. Dal prossimo primo luglio la Germania assumerà anche il semestre di Presidenza dell’Europa (ed anche per questo credo che solo nei primi giorni di luglio, ci sarà probabilmente il Consiglio europeo decisivo sui nuovi strumenti) cui seguiranno le presidenze del Governo portoghese e poco dopo quella francese.
Quale Europa avremo sarà l’esito politico di questo tratto di strada con le sue scelte coraggiose, inedite ed impensabili soltanto fino a pochi mesi fa. L’importante è saperlo.
E’ sapere che è questa, non un’altra la partita vera, che si sta giocando e decidere in quale parte del campo ciascuno di noi vuole farlo.
Walter Cerfeda