Dal tempo della grande paura a quello nel quale l’invito è a “reinventare l’Italia”. Ma forse potremmo accontentarci di visioni più realistiche del futuro che abbiamo di fronte. Come diceva Rita Levi di Montalcini “pensate al futuro che vi aspetta, pensate a quello che potete fare e non temete niente”. Del resto nel corso degli Stati Generali promossi dal Governo Conte i protagonisti della economia e della società si sono presentati per quello che sono e non poteva essere altrimenti. Con in più l’assenza di una opposizione che non ha certo brillato per fantasia creativa o capacità progettuale.
Forse la palma della delusione se l’è aggiudicata la Confindustria, molto attesa alla prova con la nuova Presidenza dopo quella incolore del recente passato, ma che non è riuscita ad andare oltre una sorta di rattrappimento corporativo senza mostrare un utile respiro riformatore. L’emergenzialità del resto non poteva che lasciare strascichi. Ma va dato atto che ad esempio il sindacato ha saputo mantenere un profilo da soggetto nazionale che sa assumersi le sue responsabilità e sa muoversi per garantire tutele tenendo conto delle difficoltà del momento, anche se ora è inevitabilmente chiamato, come tutti i corpi intermedi, ad un cambio di passo.
Anche le esercitazioni filosofiche in pillole che hanno accompagnato questo evento non hanno brillato per originalità. I richiami evocativi meglio lasciarli alla storia, a cominciare dagli effetti degli Stati Generali in terra di Francia nel 1700, confluiti successivamente nel giacobinismo che fece la fortuna di Monsieur Guillotin. O alla riesumazione di quella “democrazia contrattata” tipica della Repubblica di Weimar che è finita come sappiamo tutti per lasciare campo libero alla tragedia del nazismo. Con tali ragionamenti si rischia di dar ragione a Flaiano quando sosteneva che “aveva tanta sfiducia nel futuro che faceva progetti per il passato”.
Le idee del ‘700, compreso il contratto sociale che desta qualche nostalgia, non possono essere oggi il viatico per riprendere un cammino che è al tempo stesso di mutamento di scenari, di ripresa economica e sociale e di ricostruzione di classi dirigenti che abbiano un rinnovato valore da perseguire , ovvero il bene comune.
Ma l’autunno, tanto temuto, non è lontano e occorrerà reagire. Non tutto potrà arrivare dall’Europa, anche se la linea della Merkel, cui spetta la Presidenza dell’Unione, potrà essere di sostegno ad un Paese che si presenti con proposte serie agli appuntamenti cruciali dei prossimi mesi, senza indulgere in atteggiamenti levantini. Eppure appare logico che senza lasciare il terreno della concretezza ci sia anche bisogno di fare uno sforzo di approfondimento sulla situazione nella quale ci muoviamo.
La globalizzazione “spezzata” ci ha mostrato limiti che possono però essere di guida per un cambiamento: intanto un fallimento evidente del capitalismo finanziario, come dimostra la stessa Presidenza Usa di Trump, a fare i conti con temi decisivi come quelli ambientali e quelli prioritari del governo della salute. E si è accentuata senza risposte la divaricazione fra capitalismo e welfare. E’ come se avessimo imboccato una strada capace solo di accrescere diseguaglianze e restrizioni di diritti, senza più sbocchi innovativi sul piano sociale come pure su quello dell’economia reale.
Ecco il motivo per il quale sarebbe necessario proporre un progetto al centro del quale porre un nuovo compromesso sociale. Basato peraltro su percorsi comprensibili e attuabili già nel breve periodo. Si pensi alla esigenza di rivalutare, anche alla luce di quanto è avvenuto, le produzioni di beni essenziali come quelli rivolti alla salute, alla sicurezza, alla ricerca, alla formazione. Ed ancora: la revisione razionale ed equa delle politiche di welfare, la messa in opera di politiche infrastrutturali in grado di ottenere in tempi certi gli stessi effetti che ebbero la estensione generalizzata, al tempo del centro sinistra, della elettricità su tutto il territorio nazionale a partire dalle reti e dalla messa in sicurezza dei territori. Questo disegno di certo confligge con l’ispirazione che è al centro di quel capitalismo accentratore alla Amazon e tipico degli altri grandi colossi mondiali che produce effetti di precarizzazione che vanno oltre le stesse condizioni di lavoro.
Da fare c’è molto e senza attendere una qualsiasi ora X. Anche perché la stessa vicenda degli Stati Generali dimostra che il Paese non è privo di intelligenze e di progetti. Ci sono, eccome. Spetta alla politica questa volta, però, non soffocarli nello sforzo di attardarsi nei soliti giochi di potere. Si è citato a tale proposito il modello Genova per indicare un metodo realizzativo di sicuro successo. In realtà quel modello è difficilmente perseguibile se non altro perché poggiava su tre pilastri precisi: la genialità di Renzo Piano; l’impegno di grandi soggetti pubblici e privati; la legge speciale per Genova.
Eppure molto si può ottenere agendo rapidamente e con realismo: si pensi ad esempio ad un patto per la salute che darebbe anche fiducia ad un tessuto sociale che è vissuto nella paura in questi mesi. Abbiamo eccellenze nella ricerca e nella industriai farmaceutica; c’è la necessità di rivisitare a fondo la struttura del servizio sanitario nazionale ed il suo impatto con il territorio; c’è il supporto di una miniera di esperienze, anche dal versante sociale e sindacale, per evitare nuovi errori e mettere a frutto quanto si è appreso finora.
Altro banco di prova dovrebbe essere quello della transizione energetica. Scenario fondamentale per il futuro economico e del lavoro, soprattutto per i giovani. In questo caso i progetti non solo ci sono, ma abbondano. E sono già pronti sui tavoli dei grandi gruppi industriali. Sta ad una politica governante valutarli e scegliere. Si parla spesso di cabina di regia: nel caso specifico un compito di questo genere potrebbe essere assolto dal Ministero dell’Economia, dello Sviluppo economico e del Lavoro. E soggetti utili ce ne sono, basta coinvolgerli: dalla Cassa Depositi e Prestiti fino ai sindacati. Così pure esistono risorse da utilizzare, assai cospicue peraltro.
Non siamo all’anno zero, tutt’altro. Semmai c’è il dovere di cambiare rotta, liberando la politica dalla improvvisazione, ritrovando “sentieri” di programmazione economica, lasciando alle spalle molti falsi miti e tante sudditanze. Naturalmente senza dimenticare le urgenze: ma sono scelte da compiere che non confliggono con il percorso principale. Anzi possono contribuire a rafforzare la coesione sociale lesionata in questo periodo terribile. C’è necessità di riorganizzare rapidamente gli ammortizzatori sociali; senza dubbio è importante mettere mano al sistema fiscale, dall’abbassamento possibile dell’Iva alla detassazione degli aumenti salariali, è fondamentale dare un segnale nella direzione della semplificazione delle pratiche burocratiche che non sarà mai tale se accanto alla riduzione di norme ed adempimenti non ci sarà un efficiente uso delle reti in ogni settore della Pubblica Amministrazione.
Il Paese ha bisogno di prepararsi a mesi molto impegnativi acquisendo la consapevolezza che si può procedere non a tentoni ma su percorsi capaci di garantire risposte immediate e di medio e lungo periodo che sono alla nostra portata. Quindi non serve solo il cambio di passo ma anche di scenario. Se c’è una marcata differenza con i paragoni fatti con il dopoguerra è che il Paese ha tuttora basi solide sul piano economico ed è attrezzato socialmente per reggere a prove dure. E’ un patrimonio che non va proprio ora disperso ed è anche questo un compito del sindacato da assolvere per restare all’altezza dei suoi valori che anche in questo difficile frangente ha dimostrato di saper mantenere vivi ed utili.
Paolo Pirani